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el Aviv, gennaio 1991 - I giorni di Desert Storm. Sto tornando a Milano dopo dieci giorni di servizio in Israele, che è sotto gli Scud iracheni. All'aeroporto ho restituito la maschera antigas. Sono già sull'aereo, la cintura è allacciata, l'apparecchio nella notte rolla lento. (Bello, mi dico, essermi liberata di quella maschera nera, lugubre, come una faccia sinistra). L'aereo si arresta sul limite della pista, pronto ad andare. In quel momento suona la sirena dell'allarme. Di nuovo gli Scud puntano su Tel Aviv. L'aereo si blocca, resta immobile nel buio. Di colpo penso all' apparecchio fermo sulla pista col serbatoio colmo. Basterebbe una scheggia, una scintilla. Sento la paura: entra nel sangue come una scarica di corrente, e allerta, in una difesa atavica, i sensi, e accelera il battito del cuore.Volevo vedere la guerra. L'ho, in questi giorni, appena appena intravista. È un'ombra che ti si allarga addosso, e ti sfida: perché negli uomini c'è una radice, che non vuole morire.Poi, cos'è stato? Istinto vitale, o natura femminile? Quando l'allarme finisce e l'aereo si alza so, per la prima volta, che voglio sposarmi, e avere dei figli. Voglia di vita, contro la morte. Nel bel destino delle madri, da mille e mille anni, cocciutamente, dopo mille guerre: dare alla luce, ancora.