In forma di autoritratto, diceva del suo lavoro il fotografo ungherese André Kertész: «Sono nato chiuso, ma un chiuso aperto alla strada, ed ho cercato la felicità nel silenzio di un istante. Batteva intanto il cuore al tempo di un click». Meravigliose le sue visioni dall’alto di abitanti di città, giochi di ombre delle loro sagome riflesse sull’asfalto. O sezioni di scale, di nuovo osservate dall’alto, rampe e rampe che in un effetto ottico quasi paiono sovrapporsi, accavallarsi. O corpi immersi nell’acqua, ogni riflesso riverbero di una luce che brilla tanto da far sembrare quella stessa acqua vera, vicina più dello stesso sguardo. Ancora oggi tanto impressionanti per lungimiranza di visuale, fotografie risultanti da sguardi ampi, ampi a tal punto da non essere compresi. La rivista “Life” le rifiutò con l’argomento che «parlavano troppo». Difficile immaginare critica più miope, e d’altra parte si presume come qualcosa di quell’ampiezza disorientasse per la stessa ragione che le rendeva uniche: l’intensa simultaneità tra la vita fotografata e le emozioni di fotografo. Anni prima, presi a prestito da un circo degli specchi deformanti, Kertész aveva elaborato una serie di scatti di corpi raffigurati secondo estensioni le più assurde e perturbanti. Distorcere, quello anche è troppo dire.
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