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Virus, sport e cultura: parliamo di futuro

Mauro Berruto mercoledì 28 ottobre 2020
Quali siano i retroscena o le presunte tensioni all'interno del Consiglio dei Ministri a monte dell'ultimo Dpcm non è dato ufficialmente a sapere e, onestamente, non ci interessa neanche tanto. Quello che conta, purtroppo, è che per l'ennesima volta le chiusure di teatri, cinema, palestre e piscine è stata raccontata come una contrapposizione, addirittura come una specie di richiesta di scambio. In questi casi, per paradosso, non è la verità che conta, ma la narrazione che se ne fa. Perché c'è una narrazione che riemerge in ogni occasione utile, quella di chi vuole continuare a contrapporre cultura e sport, come se questi due pezzi nella nostra società fossero in contrapposizione. Più volte, da questa rubrica, ho fatto riferimento alla Grecia arcaica, quella piccola regione di mondo che inventò la democrazia, la filosofia, il teatro e anche lo sport. Ho raccontato di come il metodo accademico di una superstar della filosofia come Platone fosse fondato sul dialogo in senso letteralmente agonistico, alternando il confronto dialettico alla lotta e al pugilato, in una palestra. E invece, dopo più di duemilatrecento anni siamo ancora qui a discutere: "teatri aperti, palestre chiuse!" oppure "teatri chiusi, palestre aperte!". Tanto le palestre che i teatri sono oggi chiusi per coronavirus, e molti stanno drammaticamente chiudendo in maniera definitiva, messi in ginocchio da una insostenibile crisi che non accenna a finire. La pandemia, fra i suoi tanti effetti collaterali, ha quello di tornare a esaltare quella massa di opinionisti che ritiene che l'attività intellettuale sia qualitativamente superiore a quella fisica. Il distanziamento sociale ha imposto una lontananza e una staticità dei corpi che ci sta abbruttendo: un dialogo interrotto, un filo che si è spezzato. Nel nostro Paese il filo che tiene unito il corpo alla mente si è spezzato nel Dopoguerra e nessuno, sul serio, ha voluto mai riannodarlo. Nelle nostre scuole, al netto delle solite fortunate eccezioni, l'educazione fisica è una disciplina che ha una dignità inferiore rispetto alle altre materie. Le nostre scuole non sono pensate per fare sport, per insegnare la cultura del movimento. Era un grande problema prima, è una catastrofe adesso. Rischiamo di trovarci con una scuola che ha abdicato a un suo compito – quello di insegnare la storia dello sport e la cultura del movimento – e inermi di fronte alla chiusura di migliaia di società sportive. Perderemo una generazione intera di ragazzi che dovrebbero costruire il proprio sapere grazie tanto allo studio che all'esercizio del corpo. Il conto da pagare? Salatissimo, tanto nel presente quanto nell'accumulo di un debito che, ancora una volta, lasceremo in carico alle generazioni future. Il riconoscimento che a gran voce il mondo dello sport implora è quello di vedersi assegnare un'importanza strategica ed essenziale, senza nessuna retorica, per il futuro del Paese. Una pandemia si combatte con atteggiamenti virali, come convincere il più grande numero di persone all'uso della mascherina, all'abitudine a lavarsi le mani... Il mondo dello sport, soprattutto quello di base, è pronto a mettere a disposizione un esercito pacifico di milioni di ragazzi, allenatori, dirigenti, volontari che possono diventare focolai virtuosi di lotta alla pandemia, perché sono perfettamente allenati a farlo: gente strutturalmente capace di rispettare le regole, per esempio. Parafrasando Paolo Grassi che nel 1947 disse: «Non teatri o ospedali, ma teatri e ospedali» viene oggi da dire "non teatri o palestre, ma teatri e palestre e scuole e ospedali". Possibilmente teatri, scuole, palestre pieni e ospedali vuoti. Senza capricci, perché il mondo della cultura come quello sport capisce perfettamente che se non si può, non si può. Si può, tuttavia, approfittare di questo desiderio crescente di sport, di cultura, di scuola per ristabilire base solidi su cui permettere a un futuro così incerto, di appoggiarsi.