Rubriche

Vino, l'America beve italiano

Vittorio Spinelli sabato 14 agosto 2004
I vitivinicoltori italiani - almeno quelli che riescono ad esportare - hanno da poco ricevuto una buona notizia: i vini francesi sono scivolati al terzo posto nel mercato Usa, davanti a loro quelli australiani e, primi, quelli dello Stivale. E' un fatto che deve far pensare almeno da due punti di vista: da una parte quanto siano fragili gli equilibri di mercato, dall'altra quanta strada sarebbe possibile fare se non vi fossero i numerosi casi di falsificazione dei nostri prodotti. L'Italia, nei primi cinque mesi del 2004 - stando ai dati forniti a fine luglio dal Wine and Food Institute -, ha venduto nel States 327,1 milioni di ettolitri contro i 286,9 dell'Australia e i 229,2 della Francia. Rispetto allo stesso periodo del 2003, le esportazioni di vino italiano sono cresciute del 2,9%, quelle francesi sono diminuite del 26,7%. Soprattutto però, quelle australiane sono aumentate del 16,7%. Le etichette italiane occupano così il 31,4% della spesa in vini d'importazione, quelle australiane il 28%. Ma come mai i vini d'oltralpe hanno subito una così sonora sconfitta, anche ad opera, fra l'altro, dei produttori australiani? Stando alle considerazioni degli osservatori del mercato Usa, alla base vi sarebbe anche il solito patriottismo americano. Le tensioni politiche fra Francia e Usa, si sarebbero riflesse anche sulla propensione all'acquisto dei rossi e dei bianchi dei nostri cugini. C'è, tuttavia, chi dalla situazione creatasi oltreoceano, prende spunto per altre considerazioni. La Coldiretti, per esempio, punta il dito sullo spazio di mercato che i nostri vini potrebbero ancora acquisire se non dovessero subire la concorrenza delle «false etichette». Quello dell'agropirateria è uno dei cavalli di battaglia delle nostre organizzazioni agricole, e, in effetti, nel caso dei vini ha qualche buona ragione d'essere. Stando ad una recente indagine, il mercato dei falsi vini italiani negli Usa avrebbe le stesse dimensioni di quello d'importazione. Una bottiglia su due sarebbe prodotta negli stessi Usa ma venduta con nomi italianeggianti se non italiani del tutto. I casi di Barbera, Chianti, Refosco, Sangiovese ottenuti dai vitivinicoltori californiani sono all'ordine del giorno. E' da questa condizione che nasce una delle battaglie europee al Wto: la difesa delle denominazioni dei nostri prodotti potrebbe davvero essere un elemento importante per la crescita delle nostre esportazioni. Ancor più adesso. Occorre ricordare che altri dati (dell'Ismea) hanno indicato per i primi mesi del 2004 una perdita dell'export vitivinicolo pari al 13%. Il caso americano deve però portare ad un'altra considerazione. Fino a qualche anno fa i nostri produttori sapevano dell'esistenza dei vini australiani in maniera indiretta. Esistevano, ma non facevano molta impressione. Adesso la situazione sta capovolgendosi, probabilmente a causa di un'abilità produttiva e commerciale di non poco conto. Il sorpasso della Francia da parte dell'Australia è un segno che deve essere valutato attentamente anche dai nostri produttori.