L’epifania si addice alle comparse. Nel senso etimologico di apparizione, rivelazione. «Un’improvvisa manifestazione spirituale – scrive James Joyce –, presente nella trivialità di un discorso o di un gesto o di uno stato della mente degno di essere ricordato». Il progetto delle Epifanie occupa lo scrittore irlandese tra il 1900 e il 1904, e viene abbandonato per lasciare spazio ai racconti di Gente di Dublino e alla prima stesura del romanzo che diventerà Ritratto dell’artista da giovane. Da tempo riconosciute nella loro dignità di opera incompiuta, le Epifanie possono essere lette come una rassegna di comparse, ognuna delle quali apre un varco nella percezione della quotidianità. Tra i diversi brevi brani in prosa (una quarantina in tutto) se ne può isolare uno, trasparente per allusività. È la descrizione di un gruppo di viandanti, che si ritrovano alloggiati «fra strade aggrovigliate, protetti con accortezza dalla notte e dal silenzio». Ma anche lì, nella precaria «fratellanza» di quel rifugio, si fa strada un sentimento di incertezza e di attesa: «Cos’è che avanza verso di me dall’oscurità – si domanda Joyce –, impercettibile e mormorante come una marea, impetuosa e ardente, muovendo con indecenza i fianchi?». Suscitare inquietudine è forse il vero compito delle comparse.
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