Arjan Dodaj aveva 16 anni quando ha lasciato l'Albania per l'Italia, meta vagheggiata da tanti connazionali. Il viaggio in motoscafo insieme ad altri giovani, l'arrivo in Puglia, la prima notte in un casolare diroccato, le parole degli organizzatori: «Camminate e seguite i binari del treno». Dalla stazione di Bari il viaggio verso Cuneo dove aveva conoscenti, i primi lavori come giardiniere e saldatore. Nella comunità che lo accoglie come un figlio conosce il volto amico della Chiesa. Poi il battesimo, la vocazione religiosa coltivata in seminario a Roma e nel 2003 la consacrazione al sacerdozio per le mani di Giovanni Paolo II. Ma nel disegno di Dio c'è il ritorno nella terra nativa, prima come sacerdote fidei donum e dal 2021 - ventinove anni dopo quel viaggio nel mare Adriatico - come arcivescovo di Tirana-Durazzo. La storia di Arjan Dodaj, come quelle di tanti che hanno lasciato il loro Paese, insegna che quando parliamo di migranti dovremmo sempre ricordare che dentro questo termine generico stanno persone, volti, destini. E a volte ritorni nella terra di origine, tanto imprevedibili quanto ricchi di significato. Un sedicenne fuggito dall'Albania è diventato seminatore del Vangelo e guida la diocesi della capitale di un Paese dove ogni fede era stata bandita dal potere.