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Verso la foresta proibita: la frontiera dell'ignoto

Fabrice Hadjadj domenica 1 ottobre 2017
Riuscimmo a partire da Las Paquitas il 31 maggio di quell'anno, festa della Visitazione: «In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa…». Fratel Ugo aveva scritto ancora una volta al nostro superiore per supplicarlo di abbandonare la missione. Io gli avevo scritto ancora una volta per supplicarlo di mandarmi laggiù con qualcun che non fosse fratel Ugo. Il risultato fu per tutti e due un rifiuto, come se, agli occhi di padre Gesualdo, la nostra reciproca ostilità non costituisse un ostacolo per essere testimoni del puro Amore. Le devote del quartiere avevano organizzato una festa per la nostra partenza: la grossa Mercedes Mendoza pianse sulla spalla di fratel Ugo e lui le offrì come fazzoletto alcune immaginette rosa e blu di San Michele arcangelo; stavolta la scritta sul retro era una speciale preghiera di esorcismo che faceva lucrare 103 giorni e mezzo di indulgenza. L'indomani all'alba prendemmo il treno in direzione di El Niñito, un piccolo villaggio all'estremità del paese, dove avremmo ritrovato i nostri bagagli, due lama e una guida; da lì avremmo preso un vecchio sentiero di montagna fino al punto dove sarebbe stato necessario trovare e aprire una nuova via.
Com'era possibile che fossimo i primi? Per quale ragione nessuna società mineraria e persino nessun avventuriero in fuga dai macchinari occidentali ci avevano preceduti in Metagonia? Non ne avevo idea. Gli imprenditori dicevano che la regione era deserta e sterile: la prospezione non aveva scoperto né petrolio né metalli preziosi. Gli autoctoni credevano che quella terra fosse maledetta: nessuno ne era mai ritornato. Nessuna strada era riuscita a passare tra la redditività e le superstizioni e solo la relazione scritta di un gesuita, morto subito dopo, faceva menzione dell'esistenza di un territorio dimenticato dove vivevano le tribù più strane e diverse.
«E se fosse tutto uno scherzo?» sbraitò fratel Ugo, davanti alla misera stazione di El Niñito, proprio nel momento in cui stavano arrivando due bestie sonnolente assieme alla nostra guida che ci faceva grandi segni con un sorriso contorto da ritardato mentale. Forse siamo le cavie di un esperimento organizzato dalla nostra congregazione o dalla Curia romana… Come l'esperienza di Milgram, la conosci, dove si è messa alla prova l'ubbidienza di soggetti che dovevano sottoporne altri a scariche elettriche… Forse è per vedere fino a che punto i missionari possono spingersi nell'assurdità…
Di fatto, gli abitanti di El Niñito ci guardavano come gente un po' disturbata nel cervello (a parte il tizio che ci faceva da guida, che scoprimmo essere effettivamente un po' disturbato). Il sindaco, che era anche un insegnante, ci disse che la Chiesa d'Europa era veramente sciocca se mandava preti in mezzo al nulla mentre non ne aveva abbastanza per le sue parrocchie: «Qui abbiamo bisogno di medici, di ingegneri e di agenti immobiliari, non di predicatori che sognano di fare sermoni alle lucertole e ai guacharos! (Il guacharo è un piccolo uccello simile a un succiacapre: gli indigeni fanno cuocere i suoi piccoli per estrarne un olio molto saporito).
La madre del sindaco, una specie di vecchia strega sdentata, non era affatto dello stesso parere di suo figlio. A sua insaputa, ci diede un amuleto per proteggerci contro i Pishtacos, mostri che uccidono gli avventurieri temerari succhiando loro le viscere con una cannuccia di bambù che piantano loro nell'ombelico. Era il suo modo di ridarci coraggio.
Avevamo con noi cibo per sei settimane. E il necessario celebrare l'Eucarestia per otto. Dopo due giorni di marcia nella cordigliera, non avevamo incontrato nessun Pishtaco, solamente alcune alpaca selvatiche. La sera, l'uomo che ci faceva da guida mi pregò di ascoltarlo in confessione. Mi raccontò che aveva commesso un furto di recente, ma che le cose rubate erano adesso in possesso dei legittimi proprietari e che non l'avrebbe fatto più. Gli diedi facilmente l'assoluzione e tre Ave per penitenza. Quella stessa notte sparì con i nostri due lama e quasi tutte le provviste. Il suo ritardo mentale, lo compresi subito, gli permetteva solo un senso abbastanza ridotto della successione temporale. Il peccato che mi aveva confessato era quello che avrebbe compiuto subito dopo aver ricevuto la mia benedizione. Ebbe tuttavia la cortesia di lasciarci un piccolo biglietto: «Grazzie di mi avermi pardonuto…».
Per condividere la mia costernazione fratel Ugo non trovò niente di meglio che dichiararmi trionfalmente che non ci restava altro che tornare al villaggio. L'implorai di accordarmi una giornata supplementare: mi sembrava di vedere in lontananza il margine di una foresta, probabilmente quella “foresta proibita” che gli uni ci avevano descritto come popolata di alberi dalle intenzioni malefiche e gli altri come un semplice groviglio di rami che faceva da sbarramento a spazi completamente privi di interesse. Ugo cedette solamente dopo avere visto i miei occhi bagnarsi di lacrime: «Un giorno, va bene, ma non uno di più» mi disse con il tono falsamente generoso di un padre che accetta il capriccio del suo ragazzino insopportabile. Ho detto che la guida aveva rubato quasi tutte le nostre provviste. Non ci restava, a dire il vero, che il pane e il vino della messa, scampati perché il bagaglio che ci serviva da sagrestia portatile non era stata riappeso alle nostre bestie, a meno che la nostra guida, in un impeto di coscienza, ci avesse deliberatamente lasciato il necessario per nutrire una vita spirituale capace di comprendere il suo tradimento… Il lettore può farsi una idea della nostra miseria rappresentandosi la situazione alla fine di quest'ultima giornata. Giunti al limite di una foresta così densa da essere impenetrabile anche allo sguardo, decidemmo di fare una pausa e fummo sopraffatti dalla fame. Certo, non avevamo mangiato niente dalla sera prima e avevamo camminato più di dieci ore. Era questa tuttavia una ragione sufficiente perché due preti si avventassero sulle ostie non consacrate e le trangugiassero come patatine tra un bicchiere e l'altro di moscatello?
(4, continua. Traduzione di Ugo Moschella)