Le finali Ncaa del campionato di basket sono un evento del quale nella vecchia Europa, al netto dei veri appassionati della palla a spicchi, non abbiamo grande percezione. La Ncaa è l'organizzazione che gestisce le attività sportive di 1.268 college e università negli Stati Uniti. Se proprio volessimo partire dall'inizio potremmo già ragionare sul fatto che, negli Usa, il 20% dei bilanci delle università è finanziato dalle donazioni di ex allievi e il senso di appartenenza all'università di questi generosi ex alunni molto spesso è fondato sull'identità sportiva dell'ateneo. Torniamo però al fatto sportivo: finale del campionato Ncaa di basket, dicevamo. Luogo della sfida: il parquet del Us Bank Stadium di Minneapolis, un impianto che definire avveniristico non rende esattamente l'idea. Uno stadio (dove normalmente si gioca a football americano) completamente coperto con incredibili vetrate che sono un prodigio architettonico e con 70.000 posti a sedere, ovviamente tutti esauriti da tempo. Già, una finale che in Italia, potremmo rappresentare, che so, come Politecnico di Torino-Università di Padova è capace di portare più tifosi (oltre ai milioni di spettatori televisivi) di una finale di Champions League di calcio. La NBA stessa, nel giorno della finale, si ferma e lascia il palcoscenico agli sportivi universitari. Sotto la bandiera a stelle e strisce, lo sport universitario assume una mostruosa importanza e risonanza, rispetto al suo impatto sociale, culturale, di costume. Gli studenti universitari Usa ricordano il modello della Grecia classica, che teneva insieme la vigoria del corpo con la virtù, morale e intellettuale. L'identità sportiva, inoltre, permette di avere un ritorno economico che rende le università ancora più belle, più desiderate, più efficaci nel loro scopo didattico e formativo. Che dire o, meglio, che fare? Invidiare e basta? C'è una notizia: nella la finale che si è disputata fra le Università di Texas Tech e Virginia (vinta da quest'ultima), in campo c'erano due italiani. Da una parte, Davide Moretti (classe 1998), nato a Bologna, cresciuto cestisticamente nel settore giovanile di Pistoia e volato via, per accettare l'offerta della Texas Tech University, dopo aver vinto una medaglia di bronzo con la maglia azzurra agli Europei Under 18. Dall'altra, Francesco Badocchi, stessa età di Moretti, padre italiano e madre americana, che ha lasciato Cernusco sul Naviglio proprio perché il nostro Paese non gli avrebbe permesso di coniugare il suo talento atletico con gli studi universitari. Francesco è finito nel campus di Virginia (un bene protetto dall'Unesco) e lo descrive come un luogo dove ci si incanta a osservare le meraviglie architettoniche ogni volta che si va a lezione. Il bello, il bene, la virtù e lo sport, dicevamo. In realtà, lo dicevano 2.500 anni fa anche i Greci a casa loro e poi nel sud del nostro Paese, dove ragazzi affrontavano avventurosi viaggi attraverso il Mediterraneo per venire a fondare Paestum, Crotone, Siracusa: città capaci di generare intellettuali, matematici, politici, filosofi e anche (probabilmente di conseguenza) campioni olimpici.
Insomma, superata l'invidia e forti del fatto che anche qui da noi era così (purtroppo un paio di migliaia di anni fa) non resta che un'operazione: sarebbe bello chiedere a Davide e Francesco di diventare testimonial ambulanti dello sport universitario. Poi si potrebbe capire come ridare dignità allo sport nel mondo della scuola, dalla primaria all'Università. Infine, si potrebbe ragionare sul come lo sport universitario potrebbe essere di enorme aiuto allo sforzo che oggi è a carico quasi esclusivo delle Forze Armate che, grazie ai loro gruppi sportivi, permettono a migliaia di nostri atleti di poter continuare a sognare i Giochi Olimpici.
È davvero impossibile? E se sì, gentilmente, qualcuno mi potrebbe spiegare perché?