Rubriche

Velocità senza umiltà La leggenda infinita del "figlio del vento"

Alberto Caprotti sabato 10 luglio 2021
Lo chiamano "il figlio del vento" perché la sua corsa non fa rumore. La sua leggenda comincia a Los Angeles 1984: vince 100, 200, 4x100 e salto in lungo, come Owens a Berlino '36. Segna un'epoca Carl Lewis: quattro Olimpiadi, nove medaglie d'oro, quattro successi nella stessa specialità. Nove volte record del mondo, in proprio o in staffetta, dieci anni senza mai perdere nel salto in lungo, il primato dei 100 metri stabilito a 30 anni, quando nello sprint non esiste futuro, e per molti nemmeno il presente. Cigno leggero, elegante e quasi arrogante per la naturalezza con cui corre: 43,373 km all'ora la sua velocità di punta: nessuno meglio di lui prima, solo Usain Bolt dopo. Ginocchia alte, tanta estetica: gli altri calpestano la pista, lui la sfiora. Non deve correre dietro a nessuno, non ha bisogno di migliorarsi. Celebre la sua frase: «Gli altri progrediscono, noi Lewis siamo già perfetti». È fatto così, vince così. Molti ammiratori, molti nemici: Lewis è troppo poco maschio per l'America puritana, troppo eccessivo quando si presta a una pubblicità indossando i tacchi a spillo, troppo snob. Al punto da meritarsi la battuta di Ronald Reagan, che in campagna elettorale va a chiedergli il voto: «Ho fatto molto per voi», gli dice. E Lewis: «Per noi neri?». Reagan: «No, per voi ricchi». Quando suo padre muore, Carl mette nella bara la medaglia d'oro vinta a Los Angeles, insieme a una promessa: «Ne vincerò altre, papà, te lo giuro». È stato di parola. Poi le battaglie civili, il volontariato, la politica, la voglia di schierarsi. Sempre controllando la corsa. Mai stato umile, il vento non lo è. E suo figlio nemmeno.