Lo chiamano "il figlio del vento" perché la sua corsa non fa rumore. La sua leggenda comincia a Los Angeles 1984: vince 100, 200, 4x100 e salto in lungo, come Owens a Berlino '36. Segna un'epoca Carl Lewis: quattro Olimpiadi, nove medaglie d'oro, quattro successi nella stessa specialità. Nove volte record del mondo, in proprio o in staffetta, dieci anni senza mai perdere nel salto in lungo, il primato dei 100 metri stabilito a 30 anni, quando nello sprint non esiste futuro, e per molti nemmeno il presente. Cigno leggero, elegante e quasi arrogante per la naturalezza con cui corre: 43,373 km all'ora la sua velocità di punta: nessuno meglio di lui prima, solo Usain Bolt dopo. Ginocchia alte, tanta estetica: gli altri calpestano la pista, lui la sfiora. Non deve correre dietro a nessuno, non ha bisogno di migliorarsi. Celebre la sua frase: «Gli altri progrediscono, noi Lewis siamo già perfetti». È fatto così, vince così. Molti ammiratori, molti nemici: Lewis è troppo poco maschio per l'America puritana, troppo eccessivo quando si presta a una pubblicità indossando i tacchi a spillo, troppo snob. Al punto da meritarsi la battuta di Ronald Reagan, che in campagna elettorale va a chiedergli il voto: «Ho fatto molto per voi», gli dice. E Lewis: «Per noi neri?». Reagan: «No, per voi ricchi». Quando suo padre muore, Carl mette nella bara la medaglia d'oro vinta a Los Angeles, insieme a una promessa: «Ne vincerò altre, papà, te lo giuro». È stato di parola. Poi le battaglie civili, il volontariato, la politica, la voglia di schierarsi. Sempre controllando la corsa. Mai stato umile, il vento non lo è. E suo figlio nemmeno.