«Adesso guardi dritto, ma presto non vedrai che tenebra» minaccioso dice il veggente non vedente Tiresia all’ignaro Edipo re nella omonima tragedia di Sofocle. Più tardi sarà lui, Edipo, di sua propria mano a togliersi la vista; ed entrambi, l’indovino così come Edipo, reo senza ancora sapere di esserlo, diverranno uguali e vicini nel non vedere, così come uguali si mostrano nel trarre da stessa condizione di non vedenti, linfa e motivo per la profondità di nuova vista, stimolo per altre, diverse forme di visione. Anche dopo, arrivando a Colono, quando Edipo deve fare affidamento sulla figlia Antigone, che vede «sia per sé che per lui» (così si esprime), anche allora lui sa bene che le sue «pupille spente», quei suoi occhi che possono disperarsi e piangere ma non più guardare, nella drammaticità della loro condizione riescono ad intuire e a raggiungere mondi invisibili e inascoltati. Un potere di cui se pure con grande mestizia, Edipo proprio come Tiresia diventa consapevole. Sa che di tale portata è la verità su sé stesso infine compresa, da lasciarlo senza altri occhi che non siano quelli interiori, rivolti sull’onta del proprio intimo dramma. E Sofocle trova parole per l’indicibile di quanto pertiene al vedere del non vedere, a quanto, nel dramma del buio, del non visibile resta da intuire.
© riproduzione riservata