Due titoli racchiudono la puntata di oggi: «Cortina di ferro» (“Manifesto”, 17/11) e «Senza pietà» (“Stampa”, 19/11). In mezzo c'è un bambino siriano di un anno morto di freddo, solo, nella foresta, stritolato tra un muro di filo spinato e il solito “non possiamo creare precedenti” che tiene bloccati, incastrati, prigionieri migliaia di disperati fuggiti da guerra e persecuzione. Cercando di sfuggire da un cinico ricatto, l'Europa rischia di perdere l'anima. Il titolo dell'intervento di Assia Neumann Dayan (“Stampa”, 19/11), «Ma a chi interessa la fine di un bimbo?», potrebbe sembrare ma non è retorico. A chi davvero interessa? Ricordiamo bene la maglietta rossa del minuscolo Alan morto sulla spiaggia turca. Servì a qualcosa? Scosse le coscienze? Ed è giusto mostrare simili immagini, e parlarne? «Vedere i corpi dei bambini – scrive Assia Neumann Dayan – potrebbe, o quantomeno dovrebbe, servire a illuminare le coscienze, a fare qualcosa di concreto, ma rimaniamo sul divano perché, alla fine, noi cosa mai potremmo fare, cosa mai potremmo cambiare. Noi continuiamo a stare seduti sul divano. Se le fotografie fossero servire – è l'amara conclusione – le guerre non ci sarebbero più». E quel crudele confine di ferro e di ghiaccio? «Che un bambino muoia in un bosco al gelo a una distanza ridicola da noi mi sembra incredibile. Ci sentiamo tutti in colpa, ed è anche psicologicamente facile esserlo (...), in quale baratro siamo finiti tutti quanti (...). La mia domanda è sempre cosa possiamo fare noi per cambiare le cose». È un articolo sincero, perché non gonfia di lacrime la tastiera, non scivola della retorica, non propone soluzioni tanto facili quanto improbabili. E gli altri titoli di prima pagina (19/11)? Asciutti. Troppo? No, evitano l'alibi della facile indignazione, tanto breve quanto inoperosa. “Corriere”: «Bimbo muore di freddo al confine bielorusso». “Repubblica”: «Morire a un anno nel ghiaccio della Bielorussia». Altrove niente.