Trovo appassionante la storia di Vivian Maier (1926-2009). Il suo primo lavoro, a New York, è di commessa in un negozio di dolciumi. Poi si trasferisce a Chicago e diventa baby-sitter presso una famiglia del North Side. Non si sposerà mai. Impara l'inglese andando al cinema o a teatro. Ci andava da sola. Nel giorno di riposo settimanale prendeva la sua Rolleiflex di medio formato e usciva a fare fotografie. Si stima che ne abbia scattate quasi centomila, in un rigoroso bianco e nero, che non mostrò mai a nessuno. Fotografava la vita di strada: i residenti del quartiere, i bambini che giocavano, gli ubriachi, le signore civettuole, i facchini dei traslochi, le marce, le manifestazioni, i piccoli traffici all'angolo della strada, i tipi strambi, lo sfavillio delle vetrine o la sempre diversa confidenza che uno sguardo riserva per sé e allo stesso tempo rivela.
Una volta l'anno, durante il suo mese di ferie si concedeva un viaggio, sempre con la stessa preoccupazione viva di registrare la vita della strada. Fotografare era diventato per lei, e in modo radicale, una vocazione e un destino; una presa di coscienza; un'etica (e, di conseguenza, uno stile di vita, una solitudine, un amore). Dopo la sua morte, i suoi anonimi beni furono venduti all'asta, senza che nessuno avesse idea che stava così passando di mano, per uno scarso pugno di dollari, la preziosa opera di una delle grandi creatrici del XX secolo.