Una giustizia riparativa per dare un senso alla pena
La distorta percezione del tempo, infatti, può creare fantasmi, pensieri ossessivi. E dopo qualche mese di reclusione cresce l'ansia: il ritardo di una telefonata, di una lettera, di un'udienza, di un incontro, anche se di pochi giorni od ore, la moltiplicano. Nel frattempo, il ritmo è sempre quello: la sveglia, la colazione, l'aria, lo studio per pochi, il pranzo, ancora l'aria, il pomeriggio (silenzioso e freddo in questo periodo, da passare sotto le coperte) la cena, la notte. Questo, giorno dopo giorno, fa morire dentro. Ci sono detenuti che s'inventano qualcosa per resistere, ma altri si abbandonano ad azioni autodistruttive. Sono quelli che noi, cappellani e volontari, cerchiamo di incontrare il più possibile, con la speranza o l'illusione di aiutarli a non lasciarsi morire dentro.
L'impressione che ho (ma magari esistono delle eccezioni) è che la prigione continui a essere, con la sua temporalità, completamente sfasata rispetto al mondo esterno. Da qui il grande rischio di infantilizzare, deresponsabilizzare e alienare le persone che vi sono recluse. È possibile tracciare un'altra strada? Penso di sì. Andrebbe ripensato innanzi tutto il modello penitenziario. Più a monte, tuttavia, appare ormai ineludibile riflettere sull'obsolescenza del sistema sanzionatorio e sull'idea che la pena carceraria misurata in giorni, mesi e anni - sempre uguale nella sostanza, ma diversa nelle dosi - possa ancora costituire la risposta a tutti i reati. La giustizia penale e i modelli procedimentali dovrebbero dotarsi di robusti e non occasionali innesti di giustizia riparativa. Una prospettiva di riparazione seria, coltivata al di là dei meri confini del risarcimento materiale o morale. Contrariamente alla pena classica, basata sulla rimozione del fatto di reato e sulla separazione del condannato, la riparazione consentirebbe un percorso comunque impegnativo per il responsabile di reato e per la persona offesa, ma idoneo ad agire sulla possibilità di lasciare alle spalle il passato senza risentimenti. Una specie di "oblio attivo" che, a differenza del tempo passivo della pena carceraria, non lascia incatenati colpevoli e vittima allo strappo del reato. Anzi, li proietta verso il futuro.
Padre Stimmatino, cappellano
Casa circondariale maschile
"Nuovo Complesso" di Rebibbia