Una birra e una piscina idromassaggio: il giardino dell'oblio
Fili spinati delimitavano dall'alto un grande prato circondato da arbusti e piccoli sentieri che si snodavano tra i bungalow. Gli uomini, piuttosto molli e grassocci, portavano tutti lo stesso accappatoio, come in una stazione termale. Alcuni oziavano su sedie a sdraio centellinando bevande ambrate; altri grattavano le corde di un ukulele canticchiando con voce gracile; alcuni giocavano a bocce all'ombra di un albero di papaya carico di frutti maturi; altri, più agitati, scommettevano proni su tavoli da gioco; altri ancora, e fu verso di loro che mi precipitai, facevano il bagno in una piscina riempita da una sorgente naturalmente calda. Mi tuffai con la spontaneità di un san Pietro che vede il Risorto sulle rive del lago di Tiberiade. In quell'istante, Signore, non dubitavo più della Tua bontà: il bagno che mi avevi rifiutato presso i Gracidi, me lo davi ora con sovrabbondanza, con le bolle! Fratel Ugo mi guardò con sguardo impietosito. «E allora cosa c'è? protestai aggiustando il mio fondoschiena su uno zampillo dell'idromassaggio. E Naman il siriano? Non fu forse il profeta Eliseo a inventare la spa? Non c'erano grandi vasche a Siloe e a Bethesda? Sta nel Vangelo secondo Giovanni, capitoli 5 e 9, e Bethesda in aramaico vuole dire “luogo della grazia!”»
Mi giustificavo come potevo. Ero arrivato al punto in cui la migliore espressione dei fiumi d'acqua viva era la Jacuzzi.
Le intenzioni delle Venidri rimanevano piuttosto oscure. Se detestavano i maschi, perché gli offrivano quel piccolo paradiso? Forse eravamo prigionieri e dovevamo occuparci della casa e del campo, ma, per il resto, stavamo come pascià. Ogni giorno ricevevamo carne, frutta e verdura, e barili di una bevanda alcolica frizzante e ambrata che somigliava alla birra belga. Ogni tanto, le custodi portavano via due o tre uomini, non si sapeva dove. Ritornavano dopo mezz'ora con un'aria un poco languida e un impellente bisogno di andare a dormire. Quando gli chiedevamo che cosa avessero subito ci rispondevano con un strizzatina d'occhio: «Verrà anche il vostro turno…».
I nostri rapporti con gli altri prigionieri, per la maggior parte Gracidi, erano riservati al tempo stesso e cordiali, come in una casa di convalescenza per manager esauriti. Avevano i nervi fragili? Erano particolarmente astenici? In ogni caso bisognava parlare sempre a mezza voce, senza alzare mai il tono, come nella camera di un malato. Questa tacita convenzione era tuttavia infranta dalle loro attrazioni favorite. In quel caso le conversazioni si animavano, persino si infiammavano, e i gesti potevano diventare secchi e sferzanti. Avevamo visto una tale agitazione al nostro arrivo: quelli che avevamo scambiato per tavoli da gioco erano in effetti stadi e arene. Vi si organizzavano corse di lumache, combattimenti di grilli, di mantidi religiose e di ragni. I tifosi scommettevano e gridavano i nomi dei loro campioni. Gli allenatori li incoraggiavano con le istruzioni più precise: «Allungati meglio! Striscia con più costanza! Hai perso un millimetro sul tuo rivale!».
Le più grandi passioni si scatenavano però per la lotta tra insetti. Ho sentito dire che cinesi e giapponesi sono adepti di questo sport. È come scherma, pugilato e judo in miniatura messi assieme. Ma con più crudeltà. La morte è frequente così come i membri strappati. Stimolati con una cannuccia, i grilli incrociano le spade delle loro antenne, si affrontano con le mandibole, passano a un potente corpo a corpo. Il vincitore fa scricchiolare le sue elitre mentre il perdente fugge. E che dire della visione orrida di una testa di ragno stritolato nella tenaglia di una mantide?
Presi gusto a questi tornei. Ci passavo interi
pomeriggi, tra due bagni in piscina. E cominciavo a capire l'ambizione delle Venidri. Le loro cure erano calcolate. Volevano dimostrare che il maschio era debole e codardo: una seduta di massaggi, una scatola di birre, una partita, e non gli restava più niente della sua virilità. Né della sua missione.
(30, continua. Traduzione di Ugo Moschella)