Volgograd, un tempo Stalingrado, continua ad essere un tizzone bruciato della Seconda guerra mondiale. In origine fu un insediamento di pescatori sul fiume che diventò un villaggio tartaro. I russi lo chiamarono Zarin. Stalin vi combatté per affermare il bolscevismo e nel 1925 la città prese il suo nome. Nel Museo della Battaglia, inteso a celebrare la sconfitta tedesca, più dell’interno con il plastico, le uniformi, i mitra e tutto il resto, conta l’esterno. Un vecchio panificio conservato com’era lascia intuire lo stato in cui venne ridotto il centro storico e anche l’architettura dei palazzi prima del comunismo: stabili di mattonato rossiccio, non l’agglomerato sovietico poi trasfigurato dagli ammiccamenti occidentali. Salendo la lunga scalinata del Mamaed Kurgan, alla cui sommità spicca la gigantesca statua che raffigura una donna con la spada in pugno, simbolo della vittoria contro i nazisti, si capisce l’importanza cruciale, dal punto di vista strategico, che aveva la postazione: sotto passava la ferrovia, a sinistra verso nord c’erano le fabbriche, alle spalle la città vera e propria, oltre il fiume si estendeva la steppa. Vent’anni fa resta indimenticabile l’incontro che ebbi con Ivan, giovane coscritto in partenza per il fronte ceceno. Ma non mi sembrò troppo convinto.
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