La prima faccia che ho in mente è pallida, timida, molto giovane: un ragazzino, lo classificai con noncuranza in quella lontana cena fra amici, in via Porpora.
Ma pochi giorni dopo, proprio la notte di Natale, il ragazzino mi portò a Messa in una chiesa di Niguarda, dove incontrai un indimenticabile prete. Era da poco morto mio padre, mi immaginavo un Natale desolato. Invece, un regalo: uno che mi avrebbe voluto bene.
Quando, mesi dopo, imbucammo le partecipazioni di nozze, era più bianco in faccia lui delle buste. Temevo addirittura che non si presentasse, all’altare.
Invece come entrai lo vidi, in fondo alla navata della Basilica di Sant’Eustorgio, che mi aspettava. Si voltò: pallido più che mai. Magro, gli occhiali: davvero un ragazzino. La sua mano fredda di paura, benché si fosse di giugno. Dubbiosi gli invitati. “Secondo te, quanto dura?”, si chiedevano scettici.
Siamo qui, 33 anni dopo. Tre figli, due nipoti. Se mi chiedessero come abbiamo fatto, direi che non lo so. Una grazia, credo.
I capelli grigi ora, i chili in più. Ma l’osservavo l’altra mattina, sul ponte di un traghetto, che respirava l’aria del mare. Lo stesso ragazzo, gli stessi occhi inquieti e fedeli. Quanti litigi, quanta fatica con quel ragazzo con gli occhiali.
Ma forse è dopo trent’anni, che ci si vuole bene davvero.
© riproduzione riservata