Il linguaggio religioso è evocativo e talvolta simbolico. Per esempio, è nella categoria di padre che Gesù ha voluto raccontare alle persone del suo tempo l’identità di Dio. Accettando il rischio che una categorizzazione umana diventasse il filtro con cui accogliere la manifestazione di un Assoluto che è tenerezza, dolcezza e al contempo capacità di indirizzo.
Nelle rielaborazioni narrative di Gesù, vi è la possibilità che l’artista espanda il dato biblico per immaginarvi qualcosa di narrativamente pregnante. Giuseppe Calaciura fa qualcosa del genere nel suo Io sono Gesù (Sellerio), laddove presenta al lettore un padre che, davanti allo sguardo di Gesù adolescente, accudisce un ragazzo con evidenti problemi psichici: «Tutti vedevamo la torcia accesa sino al mattino perché il bambino, senza regola e senza orari, fuori da ogni normalità di pasti e di sonno, non lo lasciava riposare. In ogni momento aveva bisogno di accudimento e controllo perché metteva in bocca ogni cosa e più volte aveva rischiato di soffocare. Spesso li guardavo dopo la fatica serale del lavoro mentre passeggiavano in attesa del tramonto. Il padre dava la mano al bambino che si muoveva con piccoli scatti ma verso altre direzioni. Un padre paziente e amorevole. Mai l’ho visto tirare o strattonare suo figlio». Chissà se è successo qualcosa del genere. Gesù deve esser stato curioso dell’umanità intorno.
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