Un libero Manifesto e il libero sguardo di Vera a Messico '68
Naturalmente fra di loro c'erano degli sportivi, persone che avevano fatto sognare il Paese con le loro imprese olimpiche. C'era Emil Zatopek per esempio, la locomotiva umana. Un atleta che tutt'oggi detiene un record imbattibile, la tripla medaglia d'oro, nel 1952, ai Giochi Olimpici di Helsinki: 5.000 mt., 10.000 mt. e Maratona. Aveva firmato il Manifesto anche un'atleta già molto forte e famosa (tre ori olimpici per lei a Tokyo, 1964), ma che avrebbe conosciuto la sua consacrazione assoluta quattro mesi dopo. Si chiamava Vera Cáslavská ginnasta dal talento senza precedenti. Zatopek aveva già terminato la sua carriera sportiva (a causa di quella firma sarà confinato ai lavori forzati in una miniera di uranio), Vera Cáslavská invece, era ancora in piena attività, anzi stava ultimando la preparazione per i Giochi Olimpici in Messico, che sarebbero iniziati a ottobre. Il 20 e 21 agosto l'Unione Sovietica invase Praga con i suoi carri armati, spezzando definitivamente il sogno di quella "Primavera". La situazione era tragica e, nel caso di Vera, c'era anche un dramma sportivo: mentre tutte le sue rivali, come le fortissime sovietiche, erano già in Messico per acclimatarsi e finalizzare la preparazione, lei si rifugiò in una baita di un amico in Moravia, temendo l'arresto.
I sogni, però, sono duri a morire. Vera trema per la sua libertà, ma non abbandona il sogno olimpico. Si allena come può, solleva sacchi di patate e volteggia sui rami degli alberi. Il nuovo regime ha un bel problema da risolvere: quell'atleta è troppo amata e famosa per impedirle di partire per il Messico. Così, in maniera rocambolesca, alla fine il permesso arriva, ma le sue chance sembrano ridottissime. Si è allenata male e clandestinamente proprio nei tre mesi più importanti. Tuttavia, ancora una volta, lo sport regala una lezione a chi crede che vincere sia solo un fatto scientifico. Vera Cáslavská infila una serie di successi incredibili: oro nel concorso individuale, oro nelle parallele, oro nel volteggio. Alla trave solo un contestatissimo giudizio le assegna l'argento, dietro alla sovietica Kucinskaja. La gara che farà la storia, tuttavia, sarà quella al corpo libero. Vera domina, sembra abbia stravinto, ma il membro sovietico della giuria esercita pressioni sui suoi colleghi che prendono una decisione inspiegabile, incredibile. Aumentando la valutazione delle qualificazioni, fanno avanzare di una posizione la sovietica Larisa Petrik che, così, si trovare a vincere la medaglia d'oro ex-aequo con la campionessa cecoslovacca. La cerimonia di premiazione è surreale. Vera e Larisa sono sul gradino più alto del podio, l'una di fianco all'altra, così come salgono, affiancate, la bandiera cecoslovacca e quella con la falce e martello. Prima suona l'inno cecoslovacco, poi quello sovietico. È in quel momento che Vera Cáslavská fa un gesto certamente meno dirompente di quello dei pugni guantati di nero di Tommie Smith e John Carlos, ma che cambia in maniera altrettanto drammatico la propria storia. Un gesto femminile, delicato, colmo di grazia, straordinariamente potente. Abbassa il capo, volta il viso. Il suo sguardo non degna la bandiera sovietica, si sposta in basso a destra e lì rimane fino all'ultima nota.
Era il 24 ottobre 1968. Cinquanta anni fa. Le verrà chiesto di rinnegare quel gesto e quella firma sul Manifesto delle duemila parole. Non lo farà mai e pagherà carissimo. «Dopo aver raggiunto la cima dell'Olimpo, non sono scesa per il percorso più facile. La mia strada è stata di pietre, discese a precipizio e pozzi profondissimi. Hanno voluto cancellarmi e ci sono riusciti» dirà tanti anni dopo, dopo esser passata attraverso isolamento, divieti di lasciare il Paese, case di cura e depressione. Duemila parole e uno sguardo le avevano distrutto la vita. Duemila parole e uno sguardo l'hanno fatta diventare immortale.