19 febbraio 2020. Una zia anziana quella notte era stata male. La portai a un Pronto soccorso, in centro. Nell’astanteria i pazienti in barella, in fila uno dietro l’altro, erano più di una dozzina. E tutti vecchi, tutti che tossivano, febbricitanti. (Credevamo ancora, quel giorno, che il Covid l’avessero solo due turisti cinesi, di passaggio a Milano).
Dalle tre di notte a mezzogiorno, in attesa. Mai vista, da ex volontaria sulle ambulanze, una cosa simile: lamenti, nomi di figli e mariti invocati. Invano: non si poteva restare accanto ai pazienti.
Io però, rincantucciata in un angolo, ero rimasta. Seguivo con gli occhi un povero infermiere che correva avanti e indietro, solo. Una vecchia signora, invalida, piangeva: le scappava, ma nessuno che la portasse in bagno. Le facce di quei milanesi, quella notte: gente abituata a essere assistita, nutrita, curata. Di colpo, più niente. Quaranta di febbre, il petto scosso da una tosse rabbiosa. Gli antibiotici, impotenti. I medici, troppo occupati. Chi era arrivato, silenzioso, a Milano?
Alla zia proposero il ricovero al Pio Albergo Trivulzio. Rifiutò, altri accettarono. Li caricarono in ambulanza, soli: molti non sarebbero tornati. Incredibile finire così, e in tanti: vaccinati fin da piccoli, vitaminizzati, controllati. E poi in due giorni, falciati. Ripenso a quella notte, a quel lazzaretto. A Milano, una morte mai immaginata.
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