Come si fa a conoscere Dio? È solo una suggestione psicologica? Oppure ci sono tracce concrete della sua presenza nella storia? Wolfhart Pannenberg, teologo evangelico tedesco, facendo eco alla comprensione ebraico-cristiana, ha riassunto così una possibile risposta all’interrogativo: «Alla conoscenza di Dio si giunge riflettendo su ciò che ha operato nella storia».
E in certe pagine di narrazione, alcuni autori ci fanno cogliere come sia proprio lo svolgersi dei fatti che apre a taluni personaggi (potremmo essere noi, nel nostro quotidiano) la possibilità di un altro ordine di cose, oltre a quello scontato e immanente. Ciò avviene, per esempio, nelle pagine di La buona guerra (Einaudi) di Phil Klay, quando uno dei personaggi racconta di sé: «L’amore di mia figlia mi ha restituito la fiducia nel mondo! Era un’idea romantica, e tuttavia aveva rivelato che il conforto era possibile, e scoprire che quel conforto lo trovavo più facilmente con lei. Arrivai a paragonare l’effetto che Valencia aveva su di me al senso di Dio che avevo da bambino, il senso di un’eternità che feriva il mondo materiale, feriva i confini del mio cervello e del mio corpo e mi rendeva parte di una storia più grande. Era un amore radicato nel mondo, in una persona specifica il cui destino si poteva guidare con mano ferma».
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