Domani ricomincia il campionato, e ancora non so cosa mettermi. Vederlo da casa causa Covid, senza i riti dello stadio, è un altro gioco, un’altra cosa. Ma bisogna prepararsi lo stesso, per pesare meglio la memoria di quando il calcio non era così. La mia prima volta non andavo, credo, nemmeno ancora a scuola. Ricordo mio padre che mi teneva per mano per non perdermi in quel catino curvo di erba, voci e bandiere. Lui in giacca, cravatta e cappello che sembrava dovesse uscire per un battesimo, il cuscinetto d’ordinanza, i gradoni alti e grigi di cemento liscio di San Siro che mi ci dovevo sdraiare sopra per scalarli. Senza seggiolini, senza numeri: il pallone una volta era di tutti. Durante l’intervallo ci si spostava da una porta all’altra, per vedere più da vicino la tua squadra quando attaccava. Di quel giorno ricordo Boninsegna che segnava al Foggia, l’odore del caffè Borghetti che si mischiava al fumo del fiato e delle sigarette, la radiolina con dentro la voce grattugiata di Sandro Ciotti che diceva “ventilazione inapprezzabile e spalti ai limiti della capienza”. Imparai allora che il tifo non è un piacere, ma un lavoro duro che serve a produrre emozioni, spesso di bassa lega, talvolta purissime. Imparai che il calcio è metà scienza e metà riffa, un po’ lavagna e un po’ destino. Se non come la vita, qualcosa che molto le somiglia.