Milano, giugno - Ieri mattina la figlia più piccola ha finito l'ultimo anno di liceo. Confesso che la cosa mi immalinconisce. Forse perché mi ricordo come mi sentivo io, quell'ultimo giorno, all'uscita da scuola: nel caldo di un giugno bollente, smarrita, come se un pezzo della mia vita fosse chiuso per sempre. O forse perché si conclude oggi anche l'arco di 18 anni in cui i nostri tre figli sono andati a scuola. Rivedo il primo giorno di elementari del primo, la sua mano piccola, nella mia. E ora, finito, con la scuola basta. Flash disordinati mi tornano negli occhi: il diario del maggiore, alle medie, costellato di note, cui noi due rispondevamo impotenti e costernati. Il ragazzino, semplicemente, non apriva libro. Mi convocò il preside: entrai nel suo studio ansiosa, e a capo chino come una penitente. Mi confermò il disastro, ma, alla fine, da un cassetto estrasse a sorpresa una cerbottana, con cui il figlio mirava abitualmente all'insegnante di matematica. «Devo ammettere – disse il preside – che l'ha costruita veramente bene». Lo disse con un sorriso, e con malcelata ammirazione. Quel preside, che era uno straordinario prete, don Giorgio Pontiggia, prese sotto le sue ali il ragazzino irrequieto e ne fece un uomo. Perciò se penso a quella scuola, alle sue aule, ai cortili riecheggianti di voci, io penso a un posto buono, penso a un bene.Dopo il figlio della cerbottana, con gli altri due è stata una passeggiata. Fin dall'inizio, dagli anni dolci delle elementari, quando tutto pareva un gioco. Quando tornavano a casa esigendo, per un gioco di squadra da fare il giorno dopo, una maglietta verde, però verde prato; e la madre che rientrava dal lavoro la sera si trovava nell'ambascia di procurare, subito, una maglietta verde prato, taglia XXS, con i negozi ormai chiusi - quasi una caccia al tesoro. O quando ancora potevo aiutarli in matematica, era bello, allora; poi, già in seconda media hanno smesso di chiedere consiglio, quando si sono accorti che ne capivo meno di loro.E quanti temi letti, quante virgole discusse, quanta storia ripassata insieme, la sera, in un turbinio di re, di battaglie e di date, che il sonno cominciava a confondere. Quanti compagni diventati amici, quanti scherzi, quante risate. Quante domande, intanto che passavano gli anni, e li scoprivi più grandi, al ritorno da scuola. E le gite, come ogni volta era bello vederli salire sul pullman, felici, eccitati, il mondo da scoprire. Quanti insegnanti veri, cui hanno voluto bene, e a cui io resto grata.Mercoledì 8 giugno, anche la più piccola ha finito. Basta, con la sveglia alle sette meno un quarto del mattino. Passerò davanti alle scuole, ora, e le guarderò con nostalgia. Eppure, forse non tutto è terminato. Un figlio studia Lettere, e vuole fare l'insegnante. Perché? gli ho chiesto. «Perché – mi ha detto – crescere i ragazzi è il lavoro più bello che c'è».