Molti sono già in vacanza, altri (quorum ego) si apprestano a partire. Tutti, partiti e partenti, scatteremo fotografie. Utile viatico e anche efficace antidoto è un libro di Susan Sontag, Sulla fotografia. È una raccolta (1973) di sette saggi, usciti dapprima su The New York Review of Books, tradotti da Ettore Capriolo per Einaudi nel 1978 e più volte ristampati (è facile trovarli tuttora in commercio). Scrive Sontag - giornalista, narratrice, femminista militante: «Il più logico degli esteti ottocenteschi, Mallarmé, diceva che al mondo tutto esiste per finire in un libro. Oggi tutto esiste per finire in una fotografia». La fotografia ha a che fare con la morte. In una frazione di secondo, essa immobilizza un vivente, conferisce alla vita, che è essenzialmente dinamica, un'innaturale fissità, la fissità della morte. Talché l'uso più appropriato della fotografia è quello negli ovali di porcellana con l'effigie del defunto, nei cimiteri. Mentre un ritratto pittorico è sempre un'interpretazione vivente del soggetto da parte del pittore (specialmente se è bravo, anche se non è Tiziano), la fotografia blocca l'istante di un tempo che non arresta il suo corso. È proverbiale che Innocenzo X, vedendo il ritratto che Velázquez gli aveva dipinto, abbia esclamato: «Troppo vero!». Anche l'occasionale visitatore della Galleria Doria Pamphilj può testimoniarlo. Susan Sontag: «Ogni fotografia è un memento mori. Fare una fotografia significa partecipare della mortalità, della vulnerabilità e della mutabilità di un'altra persona (o di un'altra cosa). Ed è proprio isolando un determinato momento e congelandolo che tutte le fotografie attestano l'inesorabile azione dissolvente del tempo». Ancora: «Una fotografia del 1900, che emozionava allora per il suo soggetto, è oggi più probabile che ci commuova perché è stata fatta nel 1900». C'è poi la foto di attualità, il reportage più eloquente di un editoriale. Tutti abbiamo in mente la foto dell'uomo inerme davanti al carro armato in Piazza Tienanmen, il 5 giugno 1989: il valore simbolico di quell'eroismo è entrato nella storia. Il fotografo, da sempre, cerca di immortalare situazioni tragiche, non solo belliche. Tra le citazioni di Sontag, scelgo questa: «Il sindaco di New York, William Gaynor, fotografato nel momento in cui venne colpito da un assassino nel 1910. Il sindaco stava imbarcandosi per una vacanza in Europa quando arrivò un fotoreporter americano. Chiese al sindaco di mettersi in posa ma quando alzò la macchina vennero sparati due colpi di pistola. Nella confusione il fotografo rimase calmo e la foto del sindaco sanguinante che barcolla tra le braccia di un collaboratore è entrata nella storia della fotografia». Sorgono, come sempre, anche problemi morali: è giusto che il fotografo, soprattutto in guerra, continui a fotografare i feriti anziché unirsi ai soccorritori? Magari entrerà nella storia della fotografia, ma con quali compromessi di coscienza? La diffusione dei telefonini, degli iPhone, dei tablet, oltre a trasformare tutti i cittadini in fotografi, ha provocato la moda dei selfie. Non occorre essere sofisticati psicologi per accorgersi che si tratta di un fenomeno di narcisismo, moltiplicato dall'uso dei social. Farsi un selfie insieme a un personaggio importante (e quasi sempre i selfie sono brutte foto per l'effetto “occhio di pesce”) è un nuovo modo di praticare il name dropping, cioè di vantare familiarità con persone famose chiamandole per nome: «L'ultima volta che vidi Sergio» (cioè Marchionne); «Quando ho incontrato Ornella» (Vanoni), eccetera... Una raccomandazione. Scattare molte foto durante le vacanze va bene, è inevitabile. L'importante è non costringere famigliari e amici a interminabili sessioni di proiezioni fotografiche o, ancor peggio, di filmini dilettanteschi. È triste ammetterlo, ma non importano proprio a nessuno. Ognuno si tenga per sé le proprie foto, le mostri solo a chi, con ripetute insistenze, si confermi sinceramente amico e appassionatamente interessato (con un pizzico di masochismo).