Da adolescente, mentre guardava impotente sua madre affogare in un mare di alcool, James Keevik aveva ben poche certezze. Ma su un punto non aveva dubbi: non avrebbe mai lasciato Tuktoyaktuk (estremo Nord del Canada). «A Tuk il sole non tramonta per due mesi all’anno. Qui posso gettare le reti davanti a casa. A Tuk facciamo festa per la cattura della prima balena della stagione. A Tuk c’è la mia comunità», dice oggi il 47enne. Ma decidere di passare tutta la vita nel paese che si affaccia sull’Oceano Artico — 500 chilometri a Nord del circolo polare — presentava un problema: non c’è abbastanza lavoro. La maggior parte dei suoi 950 abitanti, quasi tutti Inuit, sono poveri. Più della meta dipende dai sussidi del governo canadese.
James ne era cosciente fin da giovanissimo. «Non sapevo molto della società dei bianchi - spiega -, ma quello che mi arrivava dalla tv era un senso di benessere che noi non conoscevamo». James è stato cresciuto dai nonni materni, entrambi Inuit. Dal nonno ha imparato ad avvicinarsi a un orso grizzly abbastanza da poterlo abbattere con due fucilate «perché se manchi il secondo colpo te lo trovi addosso prima di poter tirare di nuovo». Ha appreso la “raccolta”, non pesca, dei Beluga, che tornano a riva quando l’acqua disgela, alla fine di giugno. Da ragazzo ha passato settimane intere sulla banchisa polare pescando attraverso il ghiaccio o inseguendo le mandrie di caribù. «Qui devi saper sopravvivere - assicura -. La strada sterrata che ci collega alla prima città, Inuvik, è stata fatta sei anni fa. Quando ero giovane potevamo andare all’ospedale o fare provviste solo dopo ore di motoslitta d’inverno e di barca d’estate. Dovevamo essere autosufficienti».
Mentre assorbiva lo stile di vita tradizionale dalla famiglia di sua madre, James sentiva parlare delle ragioni che avevano portato suo padre, un britannico, a Tuktoyaktuk. «Era arrivato con la scoperta di giacimenti di petrolio negli anni Settanta. Voleva fare fortuna. Ma dopo qualche anno di lunghi inverni e isolamento ha deciso che Tuk non era per lui. E ci ha lasciati». James, che non ha quasi alcun ricordo del padre, è convinto che il suo spirito imprenditoriale gli scorra nelle vene. «Da ragazzo ero tormentato: volevo rispettare le tradizioni, ma anche guadagnare bene».
Appena presa la patente, James si è messo a guidare camion per l’unica società di costruzioni del villaggio. E dall’alto del sedile ha cominciato a notare che cosa mancava a Tuk. «Non c’era un servizio di spazzaneve che rendesse le strade praticabili in inverno, nemmeno per la scuola. Non ci potevo credere». James ha risparmiato e comprato un vecchio gatto delle nevi da una compagnia petrolifera che stava abbandonando Tuk. «Da allora lavoro per il municipio, ma anche per gli scienziati che vengono a fare ricerche sullo strato di ghiaccio». Verso gli anni 2000 sono cominciati ad arrivare i primi turisti, ai quali il paese non aveva nulla da offrire. «Né alloggio, né ristoranti, ancor meno tour», dice James, che ha subito fatto un corso a distanza e preso una licenza da tour operator. A luglio e agosto, la sua barca da pesca si trasforma in motoscafo per portare canadesi e americani “del Sud” a scoprire lembi di terra remoti dove ammirano caribù, orsi e alci. James non è ancora riuscito ad ottenere il permesso di aprire un ristorante (è in arrivo) e per il momento ha installato un barbecue e dei tavoli davanti a casa, dove serve piatti tradizionali, balena compresa. Il prossimo passo sarà un hotel: ha già comprato l’edificio. Ma James non ha perso interesse nella sua comunità. Allena gratuitamente le squadre di hockey del paese. Porta gruppi di ragazzi a caccia e a pesca, anima incontri di prevenzione della droga. E partecipa alle riunioni dell’assemblea del villaggio. Ha anche avuto tre figli, ai quali ha cercato di trasmettere l’idea che non devono scappare da Tuk per godere dei comfort “bianchi” che vedono su TikTok. «Mia figlia è saldatrice e elettricista: due figure che mancavano in paese. È ricercatissima. Mio figlio maggiore rifà i tetti. Il più piccolo, di 17 anni, ama essere all’aperto in tutte le stagioni: sicuramente porterà avanti il lavoro nel turismo. E tutti e tre parlano l’Inuktitut».
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