Caro Avvenire, con riferimento alla lettera del signor Borella (15 giugno 2024), il voto elettronico aiuterebbe chi per molti motivi non può raggiungere i seggi, ma non aiuta a risolvere il problema dell’astensionismo, che ha altre radici. L'astensionismo, purtroppo, è fisiologico in una realtà politica bipolare ed è indice di una reale incapacità della politica di raggiungere l'elettore indeciso o poco affine a una propria corrente. Insomma, è mancato un terzo polo solido e convincente.
Gabriele Arreghini
Cesano Maderno (Mb)
Caro Arreghini, il record di astensione alle Europee (per la prima volta sotto il 50%) ha suscitato amarezza e preoccupazione in molti lettori-cittadini consapevoli. Le chiavi di lettura sono molteplici, concordo con lei, e non c’è un rimedio universale. Tuttavia, a mio parere, il voto elettronico potrebbe sicuramente contribuire a riconquistare una quota di votanti. Soprattutto all’inizio, la novità e la facilità indurrebbero molti a provare una comoda modalità a distanza.
Ci sono, ovviamente, alcune obiezioni al voto espresso in questo modo (diverso dal voto digitale al seggio stesso, che accorcerebbe soltanto le procedure di spoglio). Si può pensare che venga esercitato con meno riflessione, che l’atto di andare di persona nella sede delle urne dovrebbe invece suscitare. Ma non c’è controprova. L’altro aspetto è quello della ritualità formale che accompagna un passaggio fondamentale per la democrazia e le istituzioni. Cliccare da soli nel chiuso della propria casa od ovunque con il proprio smartphone farebbe perdere la solennità di un evento collettivo.
D’altra parte, meglio più espressioni della preferenza e, quindi, maggiore rappresentatività degli eletti, di fronte al ridursi progressivo dei partecipanti alle elezioni.
La vera domanda è che cosa tenga lontani dalla politica partecipata, lasciandoci semplici spettatori degli eventi. Immagino, ma non invento, che la prima ragione stia nella sensazione che il nostro voto non sposti e conti nulla: le cose continueranno ad andare come vanno (male o anche bene, attenzione).
Non era lo stesso in passato? Sì, ma prevaleva, ipotizzo ancora, l’appartenenza a una famiglia politica e il senso del dovere rispetto a un’azione che si dava quasi per scontata. Oggi le grandi tradizioni si sono frammentate e non sono più sentite adeguate - caro Arreghini, come giustamente sottolinea - e noi siamo più individualisti, alla ricerca continua di volti freschi e proposte miracolose, in una società che va sempre più veloce e impone un ricambio continuo dei suoi protagonisti (con eccezioni: si vedano gli Stati Uniti), senza trovare però vera soddisfazione.
Dobbiamo tornare a una pedagogia della convivenza organizzata. La scuola è chiamata a fare molto, ciascuno di noi può fare qualcosa. I politici sono i primi a dovere trovare soluzioni, anche se sono tentati di cavalcare tendenze che li premiano comunque.
Mi permetto di lanciare un’idea
spericolata. Si consideri l’ipotesi di mettere un quorum per la validità delle elezioni, come per il referendum, ma con una soglia più alta: diciamo, per ora, il 65 per cento.
Se non viene raggiunta, si bruciano le schede e si torna alle urne la settimana successiva. I partiti e i candidati insisterebbero di più sull’affluenza, qualcuno si preoccuperebbe per i costi, altri per lo spreco di tempo ed energie. Una follia? Forse. Ma servono rimedi per tutelare la nostra democrazia. Pensiamoci tutti.
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