Contrariamente alla vulgata da bar, la percezione dei livelli di onestà e trasparenza del nostro Paese nel mondo sta migliorando costantemente negli ultimi anni. Secondo l'ultimo rapporto di Transparency International, nel 2018 l'Italia si è posizionata al 53° posto globale nell'indice internazionale di percezione della corruzione con un punteggio di 52 (in una scala da 0 a 100, dove il punteggio massimo indica l'assenza di corruzione): dal 2012 – quando con 42 punti l'Italia era 72ª nella classifica – il nostro Paese ha recuperato 19 posizioni nella classifica mondiale, pur attestandosi ancora sotto la media dei Paesi occidentali. È giusto tenere presente questo dato, nel momento in cui la battaglia politica torna ad infiammarsi sulle due grandi questioni "carsiche" (e strettamente intrecciate tra di loro) della regolamentazione del conflitto d'interessi e delle attività di lobbying, riportate alla luce negli ultimi giorni da alcune proposte di legge del Movimento Cinque Stelle. È un dato da cui deriva una prima, fondamentale constatazione: è inutile e pericoloso realizzare forme collettive o individuali di "caccia alle streghe". Perché riforme del genere possano andare in porto, è essenziale evitare la (storica) tentazione di far deviare leggi di questo tipo dai binari erga omnes, nel tentativo di costruire un provvedimento ad hoc nei confronti di questo o quel leader politico, già in campo o semplicemente "sospettato" di voler provare l'avventura politica. La storia repubblicana ci insegna che questo approccio è destinato a fallire, trasformando il destinatario del provvedimento nella "vittima" di una clamorosa privazione dei diritti politici ed evitando ogni ragionevole confronto su un tema così delicato. Allo stesso modo è necessario evitare di escludere dalla politica chi non appartiene ai ceti medio-bassi della società: si muoveva in questa direzione l'iniziale proposta grillina di introdurre il divieto di diventare Premier o Ministro per chi ha patrimoni superiori ai 10 milioni di euro, che poi è stata saggiamente bocciata dallo stesso Luigi Di Maio. L'errore ideologico è quello di considerare la ricchezza o il successo nella vita professionale come un "pericolo" per la collettività. Senza prendere in considerazione due elementi: l'uomo o la donna di successo sarà per definizione più "immune" rispetto a condizionamenti esterni nella sua azione politica e potrà mettere i suoi talenti e le sue competenze (certificati proprio dai suoi successi professionali) al servizio dell'intera comunità.
Evitando ogni forma di "caccia alle streghe", si potrebbe forse ottenere un altro risultato: un accordo tra le forze politiche affinché questi due temi siano inseriti tra le regole della casa comune, che gli avversari politici decidono di condividere prima e al di fuori di ogni competizione. In un Paese "normale", potrebbe accadere.
www.francescodelzio.it
@FFDelzio