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Tramandare la memoria. Perché il male non si ripeta

Marina Corradi domenica 14 luglio 2024
all’inizio del suo Diario, Etty Hillesum, la giovane ebrea morta ad Auschwitz citata da Benedetto XVI nella sua ultima udienza, si fa una domanda. Vivace, colta, a quel tempo dimentica della fede dei genitori, Etty comincia a capire però cosa accade, e dove vanno, quei treni carichi di ebrei in partenza dalla sua Amsterdam. Allora nella casa ancora tranquilla, seduta alla scrivania, gli amati libri davanti, Hillesum si chiede come mai le è dato di vivere in pace, quando milioni di altri stanno soffrendo e morendo. È una domanda che da due anni, dall’Ucraina, e poi ancora dopo il 7 ottobre, e dopo Gaza, accade anche a me di farmi. Come mai il peso del dolore appaia distribuito in modo così impari. Le città incenerite in Ucraina, la gente in fuga, e decine e decine di migliaia di soldati morti. E dopo Zaporizhzhia, le fosse comuni, dopo la battaglia della Azovstal e le code miserabili dei profughi, dopo due anni così, lunedì scorso un missile russo ha colpito l’ospedale dei bambini di Kiev. Non per caso, afferma l’Onu, che denuncia il crimine internazionale: perché l’Ucraina, in ginocchio, ceda. Leggo, e nel piccolo paese ladino in cui mi trovo me ne vado in giro con quella domanda. Laggiù, e a Gaza, e prima in quei kibbutz, e in chissà quanti altrove, scoppia la ferocia degli uomini. E qui questa meravigliosa pace, com’è possibile? Poi, rifletto, mio padre, mentre Etty finiva ad Auschwitz, era sul Fronte russo, da cui decine di migliaia di italiani non tornarono. Forse la guerra tocca, fra i popoli, una generazione, e quella dei figli e dei nipoti, come vaccinata, per un po’ ne è salva? Nella piazza un cartello ricorda le tradizioni del paese. Ancora nel primo ‘900 i diciottenni che passavano la visita di leva la domenica successiva uscivano con le piume sul cappello, a festeggiare. “Abili”: abili alla guerra, ciò che accadde poco dopo, nel ‘15. Osservo le facce di quei ragazzi fieri, sani, forti. Ignari della strage che si prepara. (Che tenerezza mi fanno, quei coscritti d’inizio ‘900, quasi fossero figli). Poi, sovrapensiero, mi affaccio alla pieve barocca. Sulla sinistra, una lapide ai caduti della Grande Guerra. Rieccoli, nell’uniforme dell’esercito austroungarico, quei ragazzi. Caduti, o dispersi - mai tornati. Trenta, forse, in un paese allora piccolissimo. Un caduto, giovanissimo, nella foto porta ancora con il cappello della festa. Cent’anni dopo, questo borgo sa di fieno, la seggiovia porta in quota i turisti, il benessere è evidente. Un’altra generazione ha portato la sua parte di dolore. I figli, però, almeno ricordavano. I figli dei figli, no. Nulla a che fare con loro quei ritratti su una lapide, che forse non hanno mai guardato. Come non la guarderebbero, credo, i miei figli. È questo, che mi fa paura. Due o tre generazioni dopo, si dimentica. Il vaccino svanisce. «Che cosa non ricordano, cosa non sanno?», si chiedeva il poeta Mario Luzi. Non sanno, i figli ciò che chi cresce nella pace ignora: la paura, gli addii, la morte. Le persecuzioni, o l’essere profughi, o le bombe sui bambini. Forse credono di sapere perché vedono sul web – ma non basta. Hillesum dal campo di Westerbork, anticamera di Auschwitz, scrisse una straordinaria cronaca dall’inferno. Le sue Lettere, brevi, scarne, sono così intrise di strazio che lasciano ammutoliti. Forse, penso, nella nostra pace qualcosa possiamo fare: tramandare la memoria ricevuta, della guerra e del male. Questo dobbiamo ai figli, che non sanno. E, non sapendo, possono ricominciare. © riproduzione riservata