L'Università - uno «fra i pochi luoghi in cui le persone si incontrano ancora faccia a faccia, in cui giovani e studiosi possono capire quanto il progresso del sapere abbia bisogno di identità umane reali, e non virtuali» (Umberto Eco) - oggi è chiamata a confermare il proprio compito, duplice e insostituibile, della tradizione e della traduzione. Anzitutto essa deve tramandare quanto ci ha preceduto e generato: la tradizione da intendere, con i classici, come sapere affidato alla cosiddetta “lampadoforìa”, la trasmissione ininterrotta della fiaccola di generazione in generazione; con Agostino, come l'abitare “il palazzo della memoria”; con Goethe, come eredità da conquistare e non già come un patrimonio inerte da custodire. La percezione del continuum cui appartenere ci preserva dall'ubriacatura del nuovismo e dall'abbaglio di credere che il presente si riduca alla novità e che la novità esaurisca la verità. Non meno urgente l'altro impegno: la traduzione, vale a dire la necessità di interpretare il cambiamento e l'affermarsi dei nuovi linguaggi, di scenari sociali e politici inediti, del monocratismo tecnologico. Avvalendosi dell'arma vincente del dialogo, che solo l'università possiede per storia e per vocazione, perché, come aggiunge Eco, essa è «l'unico luogo in cui si può applicare correttamente un approccio unificato alla diversità».