In vacanza in un piccolo paese, ascolto l'omelia domenicale. Dice il sacerdote: se i cristiani avessero fede e chiedessero aiuto al Signore non avrebbero bisogno di andare tutti dallo psicologo, a complicarsi la vita e a sentirsi dire che i problemi dipendono da ciò che è accaduto nella loro infanzia. Mi sento interpellata: dunque i miei pazienti (molti dei quali sono persone credenti) potrebbero fare a meno del mio aiuto, se solo la loro fede fosse più sicura? Sarebbe sufficiente per loro rivolgersi per consiglio a un sacerdote? Il mio lavoro complica inutilmente la loro vita e si contrappone alla fiducia nell'intervento potente di Dio? Il conflitto tra psicologia e mondo cattolico non è certo cosa nuova, e anche se l'argomento non desta più particolare interesse, le cose non sono affatto risolte: da una parte e dall'altra si continua a respirare diffidenza, anche se di solito non espressa in un modo così esplicito e diretto. Del resto, il mondo degli psicologi non nasconde un'altrettanto se non più chiara diffidenza verso il mondo cattolico: se una persona credente ha qualche problema psicologico non è affatto raro che della sua nevrosi sia fatto carico alla formazione religiosa, portatrice di regole e tabù che ne hanno distorto lo sviluppo. Io sono tra coloro per i quali la terapia psicologica non è tanto una scienza esatta, quanto piuttosto un'arte: un'arte complessa e multiforme che si apprende attraverso molto studio e molta esperienza. Un'arte che, quanto più si conosce e si pratica, tanto più invita ad essere prudenti nel generalizzare, umili nell'ascoltare, pronti ad imparare cose nuove: perché non esistono due persone uguali e per ogni cosa acquisita ce n'è un'altra ancora da scoprire. La creatura umana si forma e cresce sempre dentro una storia, fatta di molteplici relazioni: è dal complesso intreccio tra le nostre caratteristiche innate e le nostre relazioni che ciascuno di noi prende forma. Lo sviluppo però è un percorso accidentato che prevede errori, che possono riguardare certamente anche il modo in cui veniamo educati in famiglia o il modo in cui siamo introdotti alla dimensione religiosa. Ci sono storie che comportano distorsioni di sviluppo più o meno gravi, e innescano modi di funzionare faticosi e non liberi; la nevrosi non è altro che una grave mancanza di libertà: la persona nevrotica si trova imprigionata in meccanismi ripetitivi e disfunzionali che la determinano nelle scelte e nel comportamento, non conosce l'origine di ciò che le accade, e malgrado i suoi sforzi fatica a modificarsi. Imparare a leggere la propria storia attraverso il linguaggio della psicologia può dunque essere necessario, e non comporta una mancanza di
fiducia in Dio né un modo per creare inutili complicazioni: significa invece imboccare la strada più adatta per comprendere e dunque poter superare gli automatismi che limitano la nostra libertà. Proprio per questo, credo che sia altrettanto rischioso per un credente imbattersi in un sacerdote che voglia impropriamente fare da psicologo, come
in uno psicologo che creda nella sua scienza come fosse una fede: il primo rischia di sottovalutare i problemi o di rinforzare senza volerlo i meccanismi nevrotici, il secondo di non rispettare o di misconoscere il valore della dimensione religiosa e spirituale del paziente, o di attribuire ad essa tutti i suoi problemi. Nessuna area della conoscenza, neppure la psicologia, se percorsa onestamente, deve fare paura a un credente: l'analisi psicologica ci aiuta piuttosto a comprendere meglio molti aspetti del nostro mondo interiore e a farne tesoro. Ciò che caratterizza il credente è la fiduciosa certezza che tutto ciò che gli accade ha sempre un senso: la sua storia, nel suo concreto svolgersi, è perciò l'occasione che gli è personalmente data per dare il via ad una vita piena. È proprio lì, nella concretezza e nella storicità della vita di ciascuno, che si trova la strada: una strada davvero unica e personale, della quale può far parte, se occorre, anche un percorso di aiuto.