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Tornare al 1900 per capire la mafia

Alfonso Berardinelli venerdì 27 dicembre 2019
La recente notizia di più di 300 arresti, soprattutto in Calabria e in Italia ma anche in Germania, Svizzera e Bulgaria per attività criminali legate alla 'ndrangheta, non può che provocare sia sollievo che sconforto: fra gli arrestati ci sono infatti anche decine di politici, amministratori, capi della polizia, imprenditori, professionisti. Sembra che si tratti del maggior evento di lotta al crimine organizzato italiano dai tempi del Maxiprocesso alla mafia del 1986. Ma purtroppo le nostre quattro organizzazioni criminali, in Sicilia, Campania, Calabria e Puglia, risultano tuttora attivissime e in espansione nel Nord Italia e in altri Paesi europei. Il traffico internazionale di droga è la loro attività centrale e più redditizia, e altrettanto lo è la loro strategia di coinvolgimento, infiltrazione, intimidazione e corruzione delle classi dirigenti, negli apparati dello Stato e nei partiti. Tra i molti libri sulla mafia, molto interessante è un volumetto appena pubblicato dall'editore Nino Aragno, Che cos'è la mafia di Gaetano Mosca, con una prefazione sia storica che attualizzante di Giacomo Ciriello, in cui si tocca la questione dei depistaggi e della ancora oscura trattativa Stato-mafia dei primi anni '90. Il saggio di Gaetano Mosca, che con Vilfredo Pareto è stato il maggior sociologo italiano del secolo scorso, risale al 1900. È un testo militante che certo implica il quadro politico italiano dell'epoca, ma va oltre la contingenza. Subito in apertura Mosca dice che la mafia è «argomento vecchio che di tanto in tanto acquista in Italia un'attualità nuova». Eppure, mentre i siciliani quando dicono «mafia» sanno fin troppo bene cosa significa, già nell'Italia settentrionale questa chiarezza manca. Prima che «uno speciale sodalizio» in Sicilia c'è uno «spirito di mafia», il quale «consiste nel reputare segno di debolezza o di vigliaccheria il ricorrere alla giustizia ufficiale, alla polizia e alla magistratura, per la riparazione dei torti». Senza un tale retroterra culturale, senza una sensibilità premafiosa e paramafiosa, il fenomeno criminale non sarebbe così radicato e prolifero. «Le offese all'onore delle famiglie – dice Mosca – le percosse, le violenze personali, l'omicidio in rissa o per agguato sono tutti reati per i quali la denunzia alla giustizia è ritenuta sconveniente e vile». Anche fra persone colte del Nord c'è perfino chi trova qualcosa «di fiero e di simpatico» nello spirito di mafia, trascurando il fatto che esso «è essenzialmente antisociale», poiché genera «l'oppressione del debole da parte del forte e la tirannia che le piccole minoranze organizzate esercitano a danno degli individui». Probabilmente a noi italiani continua a fare difetto la capacità di autoesame o esame di coscienza. Ci sentiamo molto socievoli, simpatici, comunicativi, eppure una fondamentale antisocialità dei nostri comportamenti quotidiani affligge la nostra vita pubblica.