Chissà, son forse stato l'unico a parlar di calcio con Tonino Guerra. Potevo, perché mi usava la cortesia di parlarmene, almeno perché io sapessi che lui sapeva che mestiere facevo. Ci provavo - e ci riuscivo - perché era l'unico argomento col quale potevo togliergli il pallino per qualche minuto. Era un fiume in piena, Tonino, quando raccontava. Glielo dicevo: «T'am per 'e Marecchia», «Mi sembri il Marecchia»: il suo fiume, il nostro fiume che ogni tanto dava di matto e diventava una furia. M'è venuto in mente Tonino, non solo perché se n'è andato, e lo piango da romagnolo, ma anche perché un giorno parlammo di calciatori (c'era anche Biscardi, a cantar la gloria dell'amica Roma e a Guerra la Roma non piaceva, nonostante fosse amata anche da un altro grandissimo romagnolo, Sergio Zavoli) e a un certo punto mi chiese di Facchetti. Cosa potevo dirne? Il meglio. Attaccato al calcio non solo da grande professionista ma da innamorato totale. Almeno fino a qualche tempo prima di morire. E raccontai quella volta che, dopo il Mondiale di Germania '74, finito malamente, scrissi di lui definendolo “monumento”: mi chiamò al telefono e mi ci tenne mezz'ora perché era convinto che avessi voluto definirlo fermo, immobile come una statua. «Ma no - dicevo mentendo - ma no, volevo dire dell'autorevolezza, tu sei un monumento al calcio...». Sapevo che Bearzot l'avrebbe escluso dal viaggio a Argentina '78 e anzi s'era arrabbiato quando Carraro, su richiesta di Allodi, l'aveva nominato “capitano non giocatore”. Per Facchetti, perdere la Nazionale era un dramma, ne avrebbe sofferto come giocatore, come uomo, come Capitano. E sulle sue parole, sui tanti momenti trascorsi insieme - in amicizia - girando il mondo con l'Italia di Valcareggi, ho meditato, ripensando ai Padroni del Vapore riuniti in Lega e tutti animati da sacro disprezzo per la patria pedatoria che gli ha chiesto qualche ora di stage ricevendo in cambio un rifiuto villano. Chissà se ci fosse stato Giacinto, all'Inter, se sarebbe passata una così vergognosa scelta. Forse lui avrebbe potuto raccontargli - e lo faccio io per suo conto, oggi - quante volte la Nazionale ha salvato la faccia al calcio - che dico? - a tutto lo sport italiano. Mi basterebbe ricordare la vittoria mondiale dell'82, arrivata a salvare il campionato reduce dal primo scandaloso calcioscommesse; e quella del 2006, la conquista che fece dimenticare buona parte delle oscenità di Calciopoli. Sempre, la Nazionale, ha svolto un servizio per la Patria bisognosa. Adesso abbiamo bisogno fortissimo di vincere l'Europeo: facciamo due scelte onorevoli, non autolesioniste, nel nome di Giacinto Facchetti, capitano dell'unica Nazionale che vinse un Europeo.