Tar, paradossi e rivoluzioni (quasi) impossibili
fare i conti con la presenza e (troppo spesso) le sentenze di un Tar. Tra le decisioni più recenti e discusse, quella che ha annullato le nomine (dopo concorso internazionale) di alcuni dei nuovi Direttori dei musei: una decisione che ha suscitato giuste ondate di commenti (anche qui, ieri, quello di Alessandro Zaccuri) e che soprattutto ha l'effetto di rendere potenzialmente il nostro Paese più marginale in un ambito nel quale dovremmo invece essere letteralmente al centro del mondo.
Il paradosso fatto emergere da questa sentenza amministrativa è ben sintetizzato da due dati. Il primo: nella classifica mondiale dei musei più visitati, il primo sito italiano è quello degli Uffizi, che si colloca soltanto al 28° posto; tuttavia, non c'è nessuna delle 27 gallerie che lo precedono che non abbia almeno un quarto dei suoi spazi dedicato a opere provenienti dall'Italia. Ma occorre ricordare anche un secondo dato: in soli due anni, il numero complessivo di visitatori dei musei italiani è salito dell'11% e gli introiti del 30%. Quest'ultima è un'ottima notizia, e non è certo figlia del caso: questo boom è stato determinato proprio dalla "ventata di managerialità" portata dai nuovi Direttori dei nostri musei e, dunque, dalla riforma fortemente voluta dal ministro Franceschini. Potrei citare molti esempi di successo dei "newcomers", mi limito a ricordare quello più visibile: l'arrivo a Caserta di Mauro Felicori, che ha dato alla Reggia una capacità attrattiva, una qualità di gestione e perfino una "forza simbolica" (basti pensare alle battaglie vinte con certo sindacalismo locale) che il sito Unesco non aveva mai avuto nella sua storia contemporanea, per di più in un territorio caratterizzato da notevole complessità "ambientale".
La decisione del Tar non è campata in aria, evidentemente: i musei sono amministrazioni pubbliche e l'articolo 97 della Costituzione sancisce che i «pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge» e che vi si accede per concorso. Ma i concorsi sono, di principio, riservati ai cittadini italiani: ciò significa dunque che, in linea di principio, la Pubblica Amministrazione non potrebbe fare bandi internazionali. Neppure per gestire beni che, in molti casi, sono patrimoni dell'umanità certificati dall'Unesco.
Tutto legittimo, tutto fuori dalla realtà: continuare a gestire la macchina pubblica e i beni che amministra secondo regole del Novecento pre-globalizzazione vuol dire rifiutarsi di scendere in campo nella grande partita globale, condannando l'intero Paese a diventare un "parco archeologico" meraviglioso, quanto polveroso e stantio. Sarebbe bene che il legislatore lo ricordasse, magari prima della prossima sentenza di un Tar.