Talento e volontariato: ecco l'altra Italia dello sport
Civitanova Marche e Novara hanno brindato allo scudetto nella pallavolo, rispettivamente maschile e femminile, Lucca nel basket femminile, mentre Capo d'Orlando sta giocando la serie dei quarti di finale dei playoff di basket maschile, ma in gara 1 ha già fatto la storia, sorprendendo clamorosamente la squadra di Milano, città che ha un numero di abitanti 240 volte superiore al Comune in provincia di Messina. A voler allargare l'indagine, si scopre che, nel settore maschile, Trento ha portato una squadra alla finale scudetto della pallavolo e una ai quarti di basket (dove il resto del tabellone, oltre alla già citata Milano, vede Sassari, Pistoia, Avellino, Reggio Emilia e Venezia, non esattamente metropoli).
In campo femminile, invece, le cestiste avversarie di Lucca, in finale, rappresentavano Schio, 39.355 abitanti, mentre la pallavolo ha visto classificarsi, ai primi due posti della stagione regolare, le campionesse d'Italia in carica di Conegliano Veneto, 34.891 abitanti, e Casalmaggiore, 15.407 abitanti, campione d'Italia l'anno prima.
In sostanza, se nel calcio la serie A schiera, nelle prime dieci posizioni della classifica, nove rappresentanti delle città più importanti del Paese (la sola felice eccezione è l'Atalanta), il resto dello sport bisogna andarselo a cercare in provincia. È un segnale di forza o di debolezza? Certamente è la fotografia di un equilibrio trovato, perché non sempre è stato così: Roma, Milano, Torino hanno avuto grandi squadre che hanno vinto tanto in sport non-calcistici, sia al maschile che al femminile, ma oggi quel modello non regge più. Ai grandi centri urbani vanno le attenzioni quasi esclusive dello show-business calcistico, alle città di provincia tutto il resto.
C'è un elemento da considerare: l'Italia ha la più grande rete di associazionismo sportivo che esista in Europa, nata dalla necessità di correggere una stortura. Dal secondo dopoguerra il mondo della nostra scuola ha deliberatamente svilito, quasi abbandonato, l'insegnamento della cultura sportiva e di quella del movimento. Il testimone è stato così inevitabilmente raccolto, con la solita genialità italica, da un universo di società medie, piccole o piccolissime che costituiscono il sistema nervoso dello sport italiano. Società tenute in vita non certo da solidi budget, ma dal lavoro infaticabile di un esercito di volontari. Si stima che quasi il 55% delle attività di volontariato nel nostro Paese abbia a che fare con lo sport.
È incredibile pensare che ogni settimana la macchina dello sport italiano sia messa in moto da pensionati, maestre, farmacisti, segretarie, impiegati, panettieri o architetti che si occupano di allenare, fare i dirigenti o gli autisti del pulmino della squadra che va in trasferta, non solo senza ricevere il becco di un quattrino, ma addirittura assumendosi rischi e responsabilità personali.
Ancora più incredibile è che la figura del volontario sportivo non sia, ancora oggi, né riconosciuta né tutelata in nessun modo. Sarebbe bello, ora che finalmente è tornato ad esistere un ministero dello Sport e che il Coni ha rieletto il suo presidente Giovanni Malagò dopo il grande lavoro dell'ultimo quadriennio (con tante azioni e progetti tesi a restituire dignità allo sport all'interno della scuola), se si potesse metter mano a un disegno di legge che identifichi la figura del volontario sportivo.
Sarebbe un gesto gigantesco quello di poter dire a questo esercito di persone, con un paio di azioni molto semplici e molto pratiche: «Sappiamo che esistete, grazie per ciò che fate». Perché, nei fatti, ciò che queste donne e questi uomini fanno è creare la cultura e le condizioni perché sotto tanti campanili del nostro Paese si festeggino scudetti e si costruiscano campioni che si metteranno al collo, un giorno, una medaglia olimpica.