Franz Tunda, 32 anni, sano e vivace, un uomo giovane, forte, dai molti talenti, era nel cuore della capitale del mondo, e non sapeva cosa dovesse fare. Non aveva nessuna professione, nessun amore, nessun desiderio, nessuna speranza, nessuna ambizione. Superfluo come lui non c'era nessuno al mondo.
Franz Tunda è il protagonista del romanzo Fuga senza fine (1927) di uno degli autori mitteleuropei più popolari, l'austriaco ebreo Joseph Roth, morto nel 1939 a Parigi. Ed è proprio in quella città, «capitale del mondo», che si trova questo tenentino dell'esercito austriaco, sballottato per l'Europa alla vigilia di un'epoca tragica. La sua figura è il ritratto di un sopravvissuto che non ha più un senso da assegnare alla vita: «Nessuna professione, nessun amore, nessun desiderio, nessuna speranza, nessuna ambizione». Un profilo drammatico proprio per il suo vuoto. Un uomo che alla fine attira su di sé quel terribile aggettivo che Roth gli appioppa: «Superfluo».
Un aggettivo che è già significativo nella sua stessa etimologia: si fluisce alla superficie della vita come una paglia portata dall'acqua corrente. Non si ha né energia né voglia di sottrarsi a quello scivolare senza fine. Ma "superfluo" vuol dire anche sentirsi inutile come un oggetto da buttare, come un involucro da scartare e schiacciare. Ebbene, sono molti più di quanto s'immagini i "superflui" sia perché le vicende della vita o la stessa società li hanno ridotti così, sia perché essi stessi hanno dato le dimissioni da ogni impegno umano. Quanti giovani, appena smarrita la voglia di reagire, sfiorite le illusioni a cui si erano aggrappati, delusi dagli adulti, si lasciano andare nel vuoto dell'inerzia e della superficialità. Per loro è necessaria una mano salda e una voce che li riconduca sulla strada della vita.