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Suore testimoni di fede nelle catacombe albanesi

Claudio Monici domenica 25 novembre 2018
La chiesa cattolica di San Luigi e Santa Maria, in Rruga Kristoforidhi, venne chiusa dalla sera alla mattina. Trasformata in un teatrino dei burattini, il campanile abbattuto a picconate e gli arredi sacri saccheggiati o distrutti. Anche la chiesa ortodossa di Valona subì la stessa sorte. Però il tempio era riconvertito in caserma dei vigili del fuoco. Uguale destino per la moschea, umiliata al rango di deposito di attrezzi agricoli. Sul finire del 1967 l'Albania del dittatore comunista, filo cinese, Enver Hoxha si laicizzava totalmente e tutti i religiosi, parroci e confratelli, missionari, preti e suore, gli imam e i pope vennero arrestati o espulsi dal Paese. Alcuni religiosi, però, pur sapendo di rischiare la vita, decisero di rimanere, mischiandosi alla gente comune. Chi era scoperto, veniva picchiato, torturato e fucilato.
Quando le incontrai per la prima volta, erano già molto anziane, le tre suore dell'ordine delle Serve di Maria addolorata a Valona: suor Giulia, la sorella Ignazia Gjoka e la più anziana ottantatreenne Cecilia. Ultime testimoni di quella triste pagina di storia della Chiesa albanese clandestina e martire. Altre due "clandestine" del gruppo storico, madre Teresa e suor Agostina, erano mancate poco tempo prima. L'Albania si era totalmente chiusa al mondo esterno e per le cinque suore l'unico contatto con la realtà avveniva di nascosto, quando, al lume di una candela, si sintonizzavano sulle onde di Radio Vaticana. Pregavano nel silenzio e nel buio di una piccola stanza, con le finestre oscurate. Di nascosto si recavano a portare conforto alle famiglie cattoliche, di nascosto battezzavano e celebravano matrimoni, di nascosto offrivano l'eucaristia e amministravano l'estrema unzione. Catacombe albanesi.
Ogni fine del mese, suor Cecilia saliva su uno sgangherato autobus per raggiungere Tirana dove fare "contrabbando" di particole. Viaggiare non era semplice. Uscire dalle città suscitava sempre la curiosità della polizia politica: "Dove vai?"; "Perché?"; "Con chi ti vedrai?". E ogni volta bisognava ingegnare una scusa plausibile.
Per le suore sopravvissute a quei lunghi anni di clausura dittatoriale, il dolore più grande stava nel ricordo di don Mario Dushi. Don Mario, prete "clandestino" che vestiva abiti civili, almeno una volta al mese raggiungeva Valona per celebrare la Messa con le suore. Per loro, lui era un punto di riferimento e di conforto. Una luce nel buio. Poi accadde che don Mario non bussò più e il suo sorriso giovane e colmo di fede svanì nel nulla. Solo molti anni più tardi le suore seppero che il regime aveva scoperto la vera identità del prete e lo aveva fucilato. Il suo corpo non venne mai ritrovato. Le suore di Valona la prima santa Messa in libertà la celebrano dopo ventisei anni, assieme al padre francescano Zef Pllumi, scarcerato dopo 26 anni ai lavori forzati.
Suor Cecilia raccontava tutte queste storie con gli occhi lucidi e la memoria vivida, quando a un tratto con la mano indicò la statua della Madonna di Lourdes: «La Signora dei cieli è sempre rimasta in quell'angolo, sopra al cassettone. Nella cavità interna nascondevamo l'eucarestia. Quando la polizia segreta entrava in casa, era convinta che quella statua raffigurasse una donna qualunque. Non immaginavano che, in realtà, Maria era il pilastro su cui poggiava l'unica esperienza di fraternità religiosa in tutta l'Albania».