«Isole che ho abitato / verdi su mari immobili. / D'alghe arse, di fossili marini / le spiagge ove corrono in amore / cavalli di luna e di vulcani». Dici "Isole" e subito ti viene in mente questo incipit del migliore Quasimodo, ermetico nel 1936, con la forte immagine della luna, principio femminile, e dell'energia maschile di vulcani, associati in un Eden arcaico a cavalli che corrono in amore. Isole è il titolo della raccolta poetica di Igor Traboni, pubblicata da Ensemble, con prefazione di Davide Rondoni (pp. 62 euro 12). L'assonanza quasimodiana può apparire casuale, ma ogni poesia, da chiunque scritta, si iscrive in una storia della poesia, cioè della lingua in cui la poesia è scritta. E il critico, esecutore della musica altrui, è mimetico della musica che sta eseguendo, come, nel piccolo, è avvenuto qualche riga più sopra, dove il gioco o bisticcio tra "scritta, iscrive e scritta" è molto traboniano, amando il poeta giocare o bisticciare tra parole, preterintenzionale omaggio a Saba e/o a Giorgio Caproni: «Vento / Io ho sbagliato il vento / quanto sentimento / in fondo ad un lamento». Strepitosa l'idea di tematizzare le isole. Traboni rovescia il motto, ormai entrato nell'immaginario collettivo, che Thomas Merton, nel 1955, riprese da John Donne (1572-1631): «Nessun uomo è un'isola». Invece, l'uomo può anche essere un'isola «che vaga / nel mare dell'indifferenza». Le isole di Traboni, firma nota ai lettori di "Avvenire", sono geograficamente identificate: l'isolotto sul lago di Posta Fibreno, in Ciociaria, Ventotene, le Eolie, Palmarola, Salina, Lampedusa, le Ebridi, Alicudi, ma anche le isole d'Islanda, le Aran, le Lofoten, le Halligen; oppure isole sognate o desiderate: l'isola «dove dovrei e vorrei riposare», isole «da scoprire», fino «all'ultima isola in fondo al mondo» che chiude il libro. Niente di paesaggistico nelle isole descritte, sono luoghi che cristallizzano un ricordo, un'emozione, con la risorsa dell'ironia (e dell'autoironia) come nella Passeggiata di Ardengo Soffici: «Palazzeschi, eravamo tre, / Noi due e l'amica ironia, / A braccetto per quella via / Così nostra alle ventitré». E prevale un sentimento di malinconia, non come solipsistico ripiegamento, ma come segreta energia: «Le malinconie hanno sempre / la forza del perdono che monda». Ironia e malinconia non si escludono come nell'ultima delle dodici quartine della Passeggiata palazzeschiana, quando un organetto improvvisa una canzone nostalgica: «E fummo quattro oramai / A braccetto per quella via. / Peccato! La malinconia / S'era invitata da sé». Giustamente Rondoni, che nell'introduzione parla di «uno strano impudico pudore» per la reticenza autobiografica di Traboni, richiama la dimensione religiosa delle isolane poesie. Traboni, infatti, scrive: «La Croce, però, mi guarda e sta ferma / mentre tutto il modo gira». E anche: «Ho detto alla pazienza di farsi impazienza: / non saprei vivere senza / la ricerca costante / del Dio che vuole l'essere mio».