La stroncatura è un genere letterario nato con la letteratura, soprattutto da quando i libri facilitati dai caratteri mobili della stampa presero a invadere il mondo. Giuseppe Baretti, che firmava con lo pseudonimo Aristarco Scannabue la sua Frusta letteraria (dal 1° ottobre 1763), è considerato un capostipite. Famose le Stroncature di Giovanni Papini (1916). Per dare un'idea del tono, Papini tacciava di «merdicine rimate» le liriche di Enrico Panzacchi, a suo tempo famoso. Quanto a Francesco Pastonchi, altro luminare spento, Alfredo Oriani avrebbe detto: «Macché poeta, quello è un poppante di due quintali». Davide Brullo, in apertura all'antologia di stroncature da lui firmate (Stroncature, Gog Edizioni, pagine 204, euro 12,00), specifica in forma aforistica alcuni princìpi. Per esempio: «La stroncatura, per essere tale, deve rispondere a due criteri. Primo: leggere minutamente il libro stroncato, e citarlo con dovizia. Secondo: si stronca soltanto uno più grande di te. La legge di Davide vs. Golia. Non è ammesso fare il forte con i deboli. Scrivere stroncature chiede avventatezza e cinica leggerezza: devi sfasciarti contro uno più potente. Fiero di avergli bucato gli occhi». Non citerò nessun nome dei trentotto (se ho contato bene) stroncati da Brullo. Fra di loro ci sono parecchi miei amici, e non voglio spargere sale sulle ferite. Perché la stroncatura fa male a chi la riceve, anche se cerca di nasconderla ostentando superiorità rispetto allo stroncatore, a meno di avere un'umiltà talmente grande da gradire di veder svelati i propri errori o, peggio, la propria mediocrità. Non che non si debbano stroncare gli amici: se un amico scrive un libro che mi pare brutto, la stroncatura è sempre meglio del silenzio. Ma sottolineare o rilanciare una stroncatura di Brullo all'amico stroncato, supera il mio pur cospicuo cinismo. Un motivo più che sufficiente, però, per leggere il libro di Brullo, è l'intelligenza di cui è intriso. D'accordo o no, l'intelligenza di Brullo è ammaliante, non solo per i suoi giudizi affilati da una lama di ossidiana, ma soprattutto per il nitore della sua scrittura, aderente al contenuto eppure godibile come forma autonoma, quasi incredibile svolazzo liberty, musica dissonante di Stravinskij. Dove Brullo supera sé stesso è nell'ultimo capitolo, «Davide Brullo stronca Davide Brullo». Ci aveva già avvertito che «stroncare un altro è, prima di tutto, voltare il falcetto conto il proprio corpo – squartarsi. Ciò che si rimprovera alla scrittura dell'altro, fino al dileggio, è una spietata analisi di propri difetti: l'altro è lo specchio delle proprie mancanze». Ebbene, vedere applicato questo criterio con precisione chirurgica, di chirurgia al laser, dà le vertigini: «A me Davide Brullo», scrive Brullo, «è sempre parso un bluff. Brullo è un estremista da tè alle cinque, prono al culto di Morfeo più che a quello di Orfeo, provate a leggere i suoi libri, dopo cena e ve ne accorgerete. Che i suoi libri finiscono fuori catalogo, non disponibili, poco dopo averli pubblicati dovrebbe far sorgere all'autore qualche folgorante domanda in merito all'autenticità del proprio talento». Talento sprecato? Il talento non è mai sprecato. Il talento di Brullo è talento allo stato puro. Punto.