C’è una splendida battuta che ricordo di aver letto in un fumetto di Charlie Brown che vale più di ogni ragionamento: «Oggi non faccio niente. Anche ieri non ho fatto niente, ma non avevo ancora finito…». Non è detto che “non fare” faccia rima con “disimpegno”, anzi in molti casi accade il contrario. Ma in questo tempo di fantasia stanca, spesso la parte peggiore del lavoro è quello che capita alla gente quando smette di lavorare. E che non sa con chiarezza come impiegare la propria libertà quando diventa irreversibile. Penso alla mia generazione di nati negli anni Sessanta: siamo stati gli ultimi a poter entrare con facilità nel mondo del lavoro intorno ai vent’anni, quando eravamo ancora inconsapevoli del fatto di essere dei privilegiati, e che questo non sarebbe accaduto più. La mancanza di ricambio ci ha permesso di rimanere giovani lavoratori anche quando giovani avevamo smesso di esserlo da un po’. E adesso che di anni ne abbiamo sessanta o più, viviamo come se fossimo perennemente su un tram semivuoto, dove non spingiamo chi ci sta davanti, ma solo perché nessuno ci spinge alle spalle. Anzi, quelli che dovrebbero farlo, non possono nemmeno salirci su quel tram. E questo, oltre che sbagliato, è profondamente ingiusto. Per loro soprattutto, ma anche un po’ per noi. Che aggrappati al nostro posto, non meritiamo di doverci sentire fuori posto.
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