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Stiamo attenti a non ridurre il sacramento a tecnologia

Fabrice Hadjadj domenica 2 aprile 2017
«Sentite lo Spirito Santo? Lo sentite?». Non c'è bisogno di un grande sforzo di fantasia per accorgersi che il paradigma tecnocratico contamina anche il cristianesimo. All'improvviso Saulo è buttato giù dal cavallo e diventa san Paolo: tutto succede in un istante, in modo spettacolare, come se Dio col suo mouse avesse cliccato sul pulsante “conversione”. Non è forse l'Onnipotente? Non ha la capacità immediata di fare nuove tutte le cose? Questa è l'interpretazione che prevale tra i pentecostali. Per rendersene conto, basta guardare su Youtube un video del predicatore evangelico televisivo Benny Hinn. In un'assemblea scaldata da ritornelli sentimentali e da invocazioni autoipnotiche, il pastore punta improvvisamente il suo indice ruggendo: «Fire on you!». Ed ecco che il fedele nominato, cade di colpo a terra, come colpito da un proiettile (l'ingiunzione utilizzata, Fuoco! identifica la “Viva Fiamma d'Amore” ma anche il plotone di esecuzione). Talvolta, Benny si toglie la giacca e la trascina su buona parte della prima fila al grido prolungato della sua unica parola d'ordine: «Fuoooooooocooooo!» e succede che non solo la prima fila, ma anche la seconda e la terza cadano all'indietro come le tessere di un domino. Questo knock-out si chiama “riposo nello Spirito”. Le persone si sollevano da terra piangendo di felicità, benedicendo l'uomo che le ha abbattute, in una disposizione psicologica nella quale la via di Damasco non si distingue molto bene dalla sindrome di Stoccolma. Una sequenza particolarmente sconcertante mostra una bambina di dieci anni che sale sul palco e chiede a Benny con voce tremante: «Vorrei che mi rifacessi Fire...». Questa specie di kitsch spirituale ha perlomeno il vantaggio di presentare sintomi chiari e allarmanti. Un male simile può annidarsi tra i cattolici con sembianze meno rozze e dunque più ingannevoli. È anche probabile che in questo caso non si tratti di una contaminazione causata dal paradigma tecnocratico ma dell'origine del paradigma stesso. La cosa sembra assurda ed è invece perfettamente ortodossa (gli anticristi sono usciti di mezzo a noi, 1Gv 2,19). Non c'è forse un'evidente analogia, come in un specchio deformante, tra il miracolo della risurrezione di Lazzaro e il mostro del dottor Frankenstein? Se la Buona Novella ci rimanda alla Verità che ci mette alla prova, è necessario che essa sia anche la causa accidentale dei nostri mali più profondi, sia che la si rifiuti, sia – e questo è più pernicioso – che la si adatti ai nostri comodi… Propongo dunque questa tesi: la tecnocrazia è un'eresia della sacramentalità e l'Occidente è stato condotto al culto contemporaneo dell'efficienza da una devianza nella teologia e nella pratica sacramentale. Heidegger sostiene che la prima ambiguità si incontra nel dogma della creazione. Questo afferma che il mondo è generato da una decisione divina: amorosa, probabilmente, ma gratuita, per non dire arbitraria. Allora, la volontà (creatrice) si presenta come anteriore all'essere (creato). Questa precedenza della volontà sull'essere definisce abbastanza esattamente la struttura mentale che presiede alla devastazione moderna. Invece di accogliere l'essere così com'è, invece di attenersi al concetto di cosmo o di physis, vale a dire di un ordine naturale che costituisce il riferimento ultimo, si va oltre, verso una legge di Dio che ci autorizzerebbe a guardare il dato con sufficienza e a esercitare su di esso un dominio dispotico. Questa lettura è in buon accordo con una certa teologia nominalista ma si oppone al vero magistero cattolico. La nozione di creazione non ci fa scivolare dal dato ai data manipolabili, ma ci fa risalire dal dato al donum, fino a una donazione generosa, una provvidenza che fa appello alla nostra gratitudine e alle nostre cure anche quando la natura mostrasse i suoi disordini più crudeli (perché lo tsunami che ha portato via i tuoi figli ti lascia qualche dubbio sull'armonia e la dolcezza di Madre Natura). Seguendo Heidegger, e confondendo come lui l'eretico e l'ortodosso, Giorgio Agamben si attarda su certi aspetti della definizione del sacramento «segno sensibile ed efficace della grazia». Efficit quod figurat, dice la grande tradizione: Fa ciò che raffigura. Cosa vuol dire, se non che ogni raffigurazione è ricondotta all'efficienza? Il prete, versando l'acqua benedetta, dice: «Ti battezzo nel Nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo» e il catecumeno è battezzato realmente, immerso nella morte e sollevato nella risurrezione di Cristo. Qui la parola vuole essere performante piuttosto che contemplativa. Essa agisce, funziona, e pone in questo modo i fondamenti della comunicazione e del management. Se si aggiunge l'affermazione dell'ex opere operato – letteralmente “operato dall'azione” – e cioè che l'efficacia spirituale dell'azione viene dall'azione stessa, indipendentemente dai meriti o dalla santità del prete che è presente solo come strumento, emerge l'idea di un tecno-logia autonoma, separata dal soggetto, o di cui il soggetto è soltanto un elemento che fa parte del dispositivo... Anche qui ci sarebbe molto da eccepire, perché, da questo punto di vista, diventa difficile distinguere sacramento e magia. La libertà di quello che riceve il sacramento è messa da parte. Niente è automatico. Si può, mangiando l'ostia, mangiare la propria condanna (1Co 11, 9). Ora, questa possibilità di una condanna e perfino di una dannazione radicale, è ciò che costituisce il soggetto nella sua responsabilità, poiché egli scopre all'improvviso il peso estremo dei suoi atti. Si dimentica anche la dimensione di segno sensibile, dimensione contemplativa e al tempo stesso carnale. San Tommaso d'Aquino, fiutando il pericolo, insiste sul fatto che il sacramento è segno prima di essere azione, e dunque è impossibile confonderlo con un'efficienza cieca imposta da un demiurgo tirannico. D'altra parte il potere del Redentore non può andar contro il Potere del Creatore. Esso rispetta la sua creatura. La grazia, per brusca che sia la sua irruzione, sa seguire i ritmi più naturali. La liturgia sposa la lentezza delle stagioni. Saulo è cambiato sulla via di Damasco, ma il resto degli Atti degli Apostoli ci racconta anche la sua lunga e paziente formazione. Occorre tuttavia ammettere che c'è stata nella Chiesa la tendenza a contrapporre l'efficacia al segno sensibile, e che, stranamente – o forse non tanto stranamente –, tale tendenza è comune ai tradizionalisti e ai progressisti. I primi badano alle forme fino alla loro fossilizzazione, i secondi se ne infischiano nel nome della convivialità. In entrambi i casi, si trascura la verità del segno proporzionato ai nostri sensi, e si ripiega sull'efficienza, in modo ieratico per gli uni e in modo simpatico per gli altri...