Si dice che fra i motivi per i quali nacque lo sport c’era quello di preparare, anzi tecnicamente addestrare, i giovani alla guerra. In effetti, probabilmente succedeva così, almeno a Sparta, ed è un fatto fin troppo noto che la simbologia della celebrazione della vittoria e il linguaggio ricorra, nella storia dello sport, in modo quasi identico per le vittorie belliche come per quelle degli agoni: corone d’ulivo o di mirto, rami di palma e un vocabolario composto di metafore belliche che ancora oggi accompagna il modo di raccontare lo sport. Ci risulta familiare, per esempio, chiamare il miglior realizzatore del campionato di calcio “capocannoniere” (di solito è un atleta capace di sganciare dai propri piedi veri e propri “missili” che scavalcano la “barriera” oppure, nel corso di un “blitz offensivo” è in grado di aggirare il “bunker” della difesa avversaria e “freddare” il portiere al quale, forse, resta “l’onore delle armi”). Per fortuna duemilaottocento anni di storia dello sport hanno determinato una rotazione: lo sport da addestramento alla guerra è diventato metafora della guerra. Anzi, ancora meglio, sublimazione della guerra e potente strumento di pace. Quando scoppia una guerra, e purtroppo in questi ultimi seicento giorni ne abbiamo viste esplodere due molto vicine a noi, ogni uomo e ogni donna di sport sa di essere un uomo o una donna di pace. E, aggiungo, deve sentire il dovere di esercitare quel ruolo, ad ogni livello. Ho avuto l’immenso privilegio e la grande fortuna di partecipare a due edizioni dei Giochi Olimpici e ho visto con i miei occhi che un altro mondo è possibile. Ho visto con i miei occhi atleti russi e ucraini, atleti palestinesi e israeliani, atleti statunitensi e afghani, atleti serbi e kosovari fare la fila insieme alla mensa del villaggio olimpico, salire sugli stessi bus, condividere la stessa sala pesi. Li ho visti stringersi le mani e scambiarsi abbracci prima e, soprattutto, dopo vittorie o sconfitte. Mentre scrivo, con gli occhi incollati davanti alla televisione e alle immagini terrificanti di morte, di devastazione, di cicatrici che ispessiscono e di nuove ferite che per sanare non basteranno generazioni, sono perfettamente conscio della sterilità della riflessione che porto qui, in questo momento, del rischio che queste parole siano lette come un esercizio di pure retorica o, nel migliore dei casi, di inutile teoria. Tuttavia, credo ci siano cose da dire o da ricordare anche quanto tutti pensano che non serva e che le soluzioni siano altre e altrove. Credo, anche quando tutti impugnano una bandiera e la sventolano come tifosi mai così assetati di vittoria, che sia compito degli uomini e delle donne di sport ricordarsi e ricordare le ultracitate parole di Nelson Mandela sulla possibilità che lo sport ha di cambiare il mondo. Presupponendo che intendesse in meglio. Penso a tutto questo mentre, oggi e con enorme tristezza, quando mancano 289 giorni alla cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici di Parigi 2024. E penso che, per la prima volta nella mia vita, non so se esserne felice o terrorizzato.
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