Spiare i figli online è facile ma educare è un'altra cosa
La schermata del pc sembra tratta da un film di cyberspionaggio. È la pagina principale di quello che si presenta come «il software di monitoraggio più potente del mondo per computer, telefoni cellulari e tablet». In pratica, «controlla a distanza tutto». La versione più potente permette infatti di «spiare i messaggi e le e-mail, intercettare le chiamate, tracciare gli sms, guardare le foto e i video presenti nello smartphone, attivare il microfono del telefono a distanza, sapere dove si trova il suo proprietario, controllare le app di messaggistica come WhatsApp e Facebook Messenger».
Ho aperto questa pagina mentre stavo parlando con mia moglie a proposito della chat di classe su WhatsApp di nostra figlia. Volevo dimostrarle com'è facile «spiare i propri figli» in maniera legale, visto che spesso i ragazzi sono minorenni e usano telefoni di proprietà dei genitori. Quindi, tecnicamente, chi spia sta controllando un «suo» apparecchio. Farlo su quello di un altro, invece, è illegale.
Di software spia ne esistono diversi. Alcuni venduti anche da società che hanno nomi simili a quelle originali, e che sono state aperte con l'unico scopo di truffare i genitori impauriti. Il punto infatti è questo: noi genitori, davanti alle tecnologie, ci spaventiamo. Quando leggiamo di chat di adolescenti che grondano sesso, volgarità e messaggi nazisti (è successo, poco tempo fa, a Torino) rischiamo di farci prendere dal panico. Ed ecco che il mercato ci offre quella che sembra essere «la soluzione»: spiare le vite digitali dei nostri figli. Non costa poco, ma neanche moltissimo, visto che le cifre per usare un software spia oscillano dai 150 ai 350 dollari l'anno.
Senza arrivare a installare "spy software" sui cellulari dei nostri figli, sono tante le soluzioni tecnologiche che promettono ai genitori un controllo sulle vite digitali dei ragazzi. Persino Google ne offre una. Si chiama Family Link. Al proposito, sulla rivista «Vita e Pensiero» dell'Università Cattolica, Pier Cesare Rivoltella (che dirige il Cremit, cioè il Centro di Ricerca sull'Educazione ai Media, all'Informazione e alla Tecnologia), scrive: «È interessante che chi detiene i dati di oltre due miliardi di persone e in virtù di questo vola in Borsa e può prevedere dove vadano desideri e tendenze dell'umanità, poi si preoccupi che i più piccoli navighino protetti. Non è che anche Family link, alla fine, serva a sapere cosa i ragazzi vorrebbero fare in rete?».
C'è un secondo aspetto importante nel ragionamento del professor Rivoltella: «Controllare non è educare. Mai. Se decido di controllare mio figlio, se ritengo che questo sia l'unico modo per tenerlo al sicuro dai rischi della Rete, ho almeno due problemi. Il primo, il principale, è che questo significa che ho provato a educare, ma non ci sono riuscito. Il controllo è sempre il risultato di un fallimento o della consapevolezza di un'incapacità educativa». Per Rivoltella occorre governare, cosa ben diversa dal controllare. Perché chi controlla – continua – «prova a eliminare la possibilità del rischio per il minore. E questa è la conferma che chi controlla non ha capito il senso dell'educare. Perché non c'è educazione che non comporti rischi. Chi educa responsabilizza il bambino, il ragazzo, ma poi lo lascia andare, lascia che agisca e in questa fase delicata ma essenziale – il lasciar andare – il rischio va messo in conto. Ma si tratta di un rischio calcolato. L'educazione, e l'educazione ai media non fa eccezione, sviluppa il senso critico. L'obiettivo è l'autoregolazione, creare le condizioni perché si sviluppi la responsabilità».
Lo scrivo da padre: aiutare i ragazzi a sviluppare un senso critico anche nell'uso degli strumenti digitali è un compito non facile e faticoso. Ma pensare che basti un software spia per farli crescere, oppure affidarci a giganti come Google che hanno come ultimo loro interesse quello educativo, rischia di costarci molto di più.