Tra i suoi libri sapienziali, dal tenore quasi filosofico, la Bibbia propone ai suoi lettori le riflessioni di un erudito ebreo del II secolo, Ben Sira, che sulla felicità fa un’osservazione di buon senso: «Beato l’uomo che non ha peccato con la sua bocca e non è tormentato dal rimorso dei peccati. Beato chi non ha nulla da rimproverarsi e chi non ha perduto la sua speranza» (Sir 14,1-2). Nulla incrina la nostra felicità quanto il rimorso, quanto il rimprovero che rivolgiamo a noi stessi per aver agito male o non essere stati all’altezza dei nostri ideali. La felicità sembra quindi necessitare di una coscienza pura, risparmiata dai rimpianti e dai brutti ricordi: ma questa è davvero una buona notizia per noi, che abbiamo fatto tutti l’esperienza della nostra imperfezione e del nostro peccato? La felicità sarebbe allora riservata ai bambini, agli innocenti, agli angeli? Le cose non stanno proprio così, ci dice il Siracide: si tratta soprattutto di non perdere la speranza.
Conoscere il nostro peccato può portarci a una tristezza che nulla ha a che vedere con il pentimento e tutto ha a che fare con la preoccupazione per noi stessi: mi brucia constatare che la lusinghiera immagine che avevo di me stesso è infranta. È senz’altro doloroso, ma necessario, per imparare a conoscermi per quello che sono: un peccatore, ma un peccatore perdonato, davanti al quale la porta della speranza è aperta!
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