Il campionato sta dando ragione agli ultimi, rari, derisi conservatori come me (anche se onoro il detto longanesiano «conservatore in un Paese in cui non c'è niente da conservare»). Allegri, dopo Buffon, ridicolizza la sciagurata Var che infesta le partite della Juventus; l'Atalanta si fa beffe della Juve, scatenandole contro lo juventino in pectore Mattia Caldara, istruito alla marcatura “a uomo” sapientemente adottata da Gasperini, oppositore tattico di Sarri cui nello scorso campionato impedì di vincere lo scudetto; ma il capolavoro “tradizionale” - che angustia i critici - è l'Inter seconda in classifica alla pari della Juventus. Beneamata contro Signora è la sfida classica, è il Derby d'Italia, che stupisce e amareggia tutti gli osservatori costretti a registrare gli arditi passi di Spalletti verso la ristrutturazione della “Rinascente” che inorgoglisce i cinesi di parte nerazzurra e rasserena il Grande Esule Massimo Moratti, il tifoso per eccellenza. Spalletti sta facendo quel che si deve a una squadra ricevuta a pezzi, alcuni dei quali di valore, ricomponendo il puzzle che aveva illuso Pioli: le ha instillato orgoglio e senso del dovere, dunque capacità di reggere i confronti fino in fondo, sia conservando un precario vantaggio, sia cogliendolo a tempo scaduto. Il pratico, in Spalletti, spesso si oppone al bello, ovvero al gusto degli esteti che raramente coincide con il desiderio dei tifosi ch'è vincere, come non importa, matrice dei successi bonipertiani ma tatticamente anche del Mago. Ricordo bene le “lezioni” di Helenio Herrera: vinse tutto non da cesellatore ma da astuto condottiero di uomini che sottoponeva - anche se si chiamavano Suarez e Corso - al rigore difensivo “all'italiana” (e chiamatelo catenaccio, se vi pare) come al contropiede dei fulminei Jair e Mazzola. Mourinho vi aggiunse il senso d'accerchiamento, il rumore del nemico e fu Triplete. Nel frattempo, tengo sottocchio Eusebio Di Francesco e la sua Roma: accolto con sospetto, atteso alle giochesse del 4-3-3 che affascinano i qualunquisti, ha pensato innanzitutto a restituire fisicità ai suoi bravi ragazzi che Trigoria spesso rammolliva e a dotarli di quel senso pratico che si usa chiamar cinismo; anche lui cerca innanzitutto il risultato e s'è visto come proprio a San Siro, contro il Milan che cerca ancora il gioco. È umile ma rigoroso, Di Francesco, e ha indovinato lo slogan giallorosso di stagione: “la Roma c'è”. È pronto per il derby con Simone Inzaghi la cui Lazio - a sua volta disinteressata alle avventure tattiche - c'è davvero e ha restituito Immobile alla Patria.