Maturare è un’arte paziente. Può essere dolorosa e bella, e, anche vissuta in compagnia, non cessa di darci l’esatta coscienza della nostra incompletezza e della nostra solitudine. Per questo non è mai un processo completamente lineare o immune da turbolenze. Maturare vuol dire imparare a non temere le trasformazioni della traversata: le modificazioni che ogni tappa determina dentro e fuori di noi; la sorpresa che talora ci coglie nel guardare il nostro volto allo specchio o la nostra impronta sul cammino. Maturare è essere capaci di riutilizzare tutto: quello che era rimasto soltanto abbozzato; quello che avevamo conservato per dopo e che abbiamo dimenticato; quello che era stato organizzato ma non è stato portato a termine; quello che per qualche motivo abbiamo considerato inservibile, e di cui però non ci siamo disfatti. Maturare è capire meglio la gioia che ci può essere non solo nel gestire il tanto, ma anche il poco: e accendere i giorni con quel che è restato, anche quando appaia insignificante; essere felici di quello che è possibile; commuoversi per quello che gli altri possono dare, anche se non coincide con ciò che avevamo pensato noi. Maturare è rendersi conto che la fragilità può essere una forma di fulgore come quella che secernono le foglie quando si staccano in autunno. Non precipitano a terra, si dondolano disegnando il loro offrirsi; e, quando si offrono, scoprono di prolungare, in realtà, la loro durata.
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