Una pratica che purtroppo si va diffondendo è quella di visite mediche in cui il dottore quasi non vede il paziente. Piazzato dietro a una scrivania e davanti a un computer, nei quindici o venti minuti che può durare l'incontro egli si occupa soprattutto di compilare un rapporto informatizzato. Una domanda dopo l'altra, ma il medico tiene gli occhi sempre incollati alla tastiera. La tecnica diventa così il fattore principale e in breve tempo si trasforma in sistema. Le informazioni provenienti dallo sguardo ne risultano mortificate: è come se d'un tratto fossimo diventati miscredenti riguardo alle possibilità di cui esso è portatore. Resta in ogni caso in piedi la domanda se mai possiamo esaminare (e non mi spingo a dire “guarire”) chi neppure sappiamo vedere. L'impoverimento dello sguardo indotto dal nostro modo di vita accelerato non investe solo l'ambito clinico: è dappertutto. Ricordo la preoccupazione e l'azzeccata ironia con cui la scrittrice portoghese Sophia de Mello Breyner Andresen descrive tale depauperamento in alcune poesie dell'ultimo libro da lei dato alle stampe quand'era in vita. La poetessa vi denuncia l'attivismo in cui noi cadiamo, dove «l'orecchio non ode il flauto della penombra», dove «il pensiero nulla sa dei labirinti del tempo» e «lo sguardo prende nota e non vede». In un suo componimento particolarmente incisivo, intitolato Turisti nel museo, lamenta come sia andato perduto «l'antico, prolungato ruminare del viaggio» e trova che la nostra ossessione di scattare fotografie non è, in fondo, che un liberarci rapidamente gli uni degli altri e della realtà. E non ha fatto in tempo ad assistere al trionfo del selfie! Con troppa facilità scambiamo la contemplazione con un assillante accumulo di immagini; e lo scrutare, con un sapere prefabbricato. Travolgiamo la vita con questa specie di istupidimento che ci ottenebra. Invece dell'incontro, cui ci fa accedere solo uno sguardo disponibile e profondo, ci limitiamo a imbatterci negli altri, pensando con ciò di estrarne sentimento e senso. Lo si può osservare tanto nelle cose grandi come in quelle piccole, quelle in cui si strutturano le nervature del quotidiano. Nella sua opera Minima moralia, Theodor Adorno porta come esempio la maniera brusca con cui trattiamo le porte, avendo noi disimparato il modo di chiuderle con delicatezza, con attenzione e cura. Dice il filosofo tedesco: «le porte delle auto e dei frigidaires vanno sbattute con forza, altre hanno la tendenza a scattare da sole e inducono chi entra alla villania di non guardare dietro di sé, di non custodire l'interno che l'accoglie». Uno sguardo attento ci permetterebbe forse di spezzare quella catena che viene creata dalle due forze che tiranneggiano la vita contemporanea: l'indifferenza e il consumo. Ciascuna ha il proprio percorso, ma ben presto esse finiscono per coincidere nello svilimento dello sguardo che riserviamo gli uni agli altri e al mondo. L'indifferenza rappresenta l'estraniamento totale, come se non riconoscessimo il valore o il significato di una determinata esistenza. Scegliamo di scivolarvi accanto e di ignorarla. Guardiamo, ma non vediamo né vogliamo vedere. Il consumo (che esiste anche nelle relazioni interpersonali, non esclusivamente nel rapporto con i beni materiali) presuppone, al contrario, la soppressione di ogni distanza. In un certo senso rappresenta un'altra modalità di ignorare l'altro, in questo caso mediante un movimento invasivo, tramite il divoramento e il possesso. Usiamo gli altri in funzione delle nostre necessità: in verità non li incontriamo. Per questo è così importante riconoscere che solo l'attenzione dota lo sguardo di un significato etico. Siamo giusti solo con coloro che guardiamo a lungo, in un esercizio che pone l'ospitalità come condizione di conoscenza. O come condizione di riscatto. Non per nulla Simone Weil, che al tema dedicò una riflessione acutissima, scrisse che «ciò che salva è lo sguardo».