Il vento rivoluzionario del 68' nel nostro calcio l'ha portato una figurina rarissima, Paolo Sollier. Occitano di Chiomonte, classe 1948, uomo di movimento in campo, «centravanti tattico» nel Perugia dei miracoli, ideologo involontario fuori. Sollier autore di un libro epocale, "Calci e sputi e colpi di testa", che ne fanno il primo "calcioscrittore". Etichetta da cui si è sempre smarcato, «come da quelle del Mao del pallone», mi dice. Ma il suo poster resta quello del centravanti che salutava con il pugno sinistro chiuso sotto la curva un po' "fascia" dei laziali, metà anni 70. Anni plumbei, in cui l'ex ragazzo fondatore di "Mani tese", finito l'allenamento si dava da fare per portare soccorso ai Paesi del Terzo mondo. Nei ritiri girava con i libri sottobraccio di Primo Levi, Cesare Pavese e Gabriel García Márquez. Allergico ai «cacciatori di autografi», il suo manifesto era e rimane: «Abbattere quella barriera che cominciava a dividere il "calciatore-divo" dal pubblico degli stadi». Da allenatore di squadre, esclusivamente di dilettanti, «quindi anticapitaliste», ha rifiutato ogni forma di social «quando ho visto i miei ragazzi che, prima della partita, stavano tutti collegati ai telefonini con giocatori di altre società e non parlavano più con i propri compagni». Ecco, «compagni», accezione che Sollier ormai riserva solo a chi stringe i denti e resiste a questa «folle mutazione antropologica i cui effetti si scopriranno tra vent'anni».