Curando e introducendo Poesie per Emma di Thomas Hardy (Marsilio), Gilberto Sacerdoti ci offre sia la possibilità di leggere in un'ottima traduzione un grande poeta, sia una buona occasione per riflettere sul ritorno di Hardy e del suo stile nella poesia inglese dell'ultimo mezzo secolo. Nato nel 1840, morto nel 1928, famoso soprattutto come romanziere (con Via dalla pazza folla, Tess dei D'Urbervilles e Jude l'oscuro) Hardy si dedicò alla poesia soprattutto in tarda età e va ormai considerato uno dei maggiori poeti del Novecento. A favorirne la riscoperta è stato negli anni Sessanta Philip Larkin, «probabilmente il maggiore poeta inglese del secondo dopoguerra» (Sacerdoti). Con Larkin e con la sua passione per Hardy è avvenuta una svolta. Dopo l'eccezionale virtuosismo tecnico, intellettualistico, visionario della triade Eliot, Auden e Dylan Thomas, la sobrietà, la solidità descrittiva e diaristica di Hardy hanno avuto un effetto disintossicante. Fin dalla prima poesia di questa raccolta si può capire la profondità del mutamento portato da Hardy: «Vado viaggiando per campi deserti / mentre i gabbiani spiccano come / scaglie d'argento contro una nube / di mala ventura che grava e minaccia». Queste poesie d'amore per la moglie morta mostrano tutta «l'arte di nascondere l'arte» che Hardy prediligeva. Trascurato per lo più dai critici (sia da Eliot che da Wilson, Empson, Trilling e parecchi altri), Hardy ha influenzato soprattutto i poeti, a cominciare da Auden. Ha scritto Larkin: «La critica moderna prospera sul difficile, o sullo spiegare il difficile», mentre Hardy «è semplice: nella sua opera vi sono pochi pensieri o riferimenti che richiedano delucidazioni, la sua lingua non è ambigua, i suoi temi sono facilmente comprensibili». Qualcosa di simile è avvenuto anche in Italia. Tutti i critici si sono messi a spiegare Montale. Di Saba ci si occupa poco. Saba si capisce.