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“Soglia” e storie del dolore: chi fa riflettere e chi ringhia

Umberto Folena giovedì 11 marzo 2021
La simbolica soglia di centomila morti per Covid sembra un'apertura di giornale doverosa, ma martedì non tutti la colgono. Lo fa “Avvenire” («Centomila croci d'Italia»). Lo fa la “Stampa” con un «Centomila» a caratteri di scatola, seguita da «l'Italia supera un'altra terribile soglia del dolore». Scelta ancora più drastica quella della “Repubblica”, con una “pre-copertina” intitolata «Centomila», quattro pagine di foto di italiani caduti e l'editoriale del direttore Maurizio Molinari («Per non dimenticare»): «Ogni vittima ha un nome». Non la massa informe dei “centomila”, dunque, ma centomila nomi e centomila volti. Come scrive Aldo Cazzullo sul “Corriere”: «Centomila morti, centomila tragedie». La massa e l'abitudine comportano rischi. Uno, tra i maggiori, lo sottolinea Stefano Nava, pneumatologo del Sant'Orsola di Bologna, intervistato sul “Corriere” da Marco Imarisio: «Ormai siamo troppo assuefatti. E la voglia di voltare pagina conduce dritta alla rimozione, quando non al fastidio». Gli fa eco Giuseppe De Rita intervistato sul “Messaggero” da Mario Ajello: «Dateci una motivazione, esistenziale, lavorativa, economia, sociale, per andare avanti».
Altri fanno scelte altre. Il “Fatto” ignora la soglia simbolica: niente in prima pagina, meglio il solito attacco a Draghi, che «raddoppia la task force di Conte». Il “Giornale” coglie la soglia: «Catastrofe Covid, superati i centomila morti», ma dedica il cuore della prima pagina alla polemica anti-comunista: «Ipocrisia rossa. Le donne di sinistra che odiano le donne. L'8 marzo invocano la solidarietà, ma per tutto l'anno sono le prime ad attaccare chi non la pensa come loro». “Libero” fa qualcosa di simile e difficile da comprendere. Usa un termine mutuato dallo sport: «Record. 100.000 morti in Italia». Record? Ma la notizia sembra solo il pretesto per la polemica politica: «Ci avevano raccontato che il nostro Paese era un modello per il mondo intero, ma nessuno ha fatto peggio di noi». Ringhiare sempre, anche sulle tombe.