Èdalla più nobile antichità classica, quella filosofica, che ci viene la definizione dell’uomo come animale politico, o più precisamente sociale. Ma di che cosa è fatta la nostra attuale socialità? Come possono le nostre società esistere, essere soddisfacenti, buone e giuste, senza uno spirito di socialità? Senza la nostra individuale capacità di contatto e di esperienza sociale, la socialità si impoverisce, umanamente deperisce e a volte si annulla creando pericoli e rischi. Non c’è socialità senza il rapporto che ognuno ha con la presenza reale degli altri. Ma è proprio una tale presenza reale che i social media hanno reso sempre meno reale perché tecnicamente riduttiva, asettica, meccanica, distanziata. L’onnipresenza quotidiana delle mediazioni comunicative di tipo tecnico sembra che ormai tenda a creare una forma di fobia dell’altro in quanto reale presenza. La comunicazione “da remoto” trasforma gli altri in ombre, in entità incorporee che occupano un display per sparire subito dopo. Una comunicazione tecnicamente svuotata di prossimità e concretezza rende il prossimo lontano e astratto. Nell’ultimo numero di Internazionale leggo un articolo uscito sul “Financial Times” che prova a porre in termini estremi il problema del nostro contraddittorio rapporto con i social: «anche se tutti ci lamentiamo dei social, continuiamo a usarli». Si tratta di qualcosa a metà strada tra la necessità pratica e il vizio. Si può anche sapere e pensare che i social fanno male, eppure senza di loro si teme di non riuscire più a vivere o di vivere peggio. Se si evita di connettersi ci si sente “tagliati fuori”. A una vera socialità si sostituisce una connessione da smartphone. È una specie di “trappola collettiva” che ha avuto dei precedenti nell’uso dell’automobile e del televisore. Dopo esserci trasformati in automobilisti e telespettatori, siamo diventati telefonisti coatti. Mi chiedo tuttavia se il problema non sia più ampio e radicale. Da un lato sembra che ogni società con i suoi usi, costumi, abitudini e tecniche imponga il suo tipo di socialità; ma d’altro lato sembra anche che il popolo stesso voglia sottomettersi, si lasci sedurre da una “servitù volontaria”, come suggerì secoli fa Etienne de la Boetie, grande amico di Montaigne. Se siamo tanto spesso meno liberi di quanto potremmo essere, è perché vogliamo o preferiamo “essere come tutti”. Ubbidiamo alle mode collettive. Le nuove tecniche hanno in questo le loro responsabilità. Ma se ne abusiamo è solo per conformismo. Essere anche solo un po’ diversi dagli altri ci fa una paura sproporzionata. Anche nelle società che si credono libere agiscono forme occulte, inavvertite di coercizione. Fra queste c’è un’oscura passione di ubbidire a ordini che nessuno ha dato. Erich Fromm, studiando la società americana dopo essere fuggito dalla Germania conquistata da Hitler, chiamò questo “fuga dalla libertà” di individui che si credono liberi e di “patologia della normalità”.
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