Dov’è finita la canzone napoletana? Nel corso di due o più secoli è stata la canzone italiana per eccellenza, dominatrice di fatto su quella nazionale. Ha avuto grandi autori ed esecutori, una storia sorta da una condizione sociale decisamente diversa, su cui ha scritto pagine ammirevoli Raffaele La Capria in L’armonia perduta. Se nel Settecento e nella grande stagione dell’opera buffa, ma soprattutto con le sue canzonette di origine popolare ispirò musicisti come il giovane Mozart, è con l’invenzione della radio che si impose, e col festival di Napoli precorritore di quello di Sanremo. La ragione è semplice: Napoli era una capitale aperta alle influenze della musica araba, nordafricana, spagnola, ed era una città dove la creatività e la trasmissione poetica e culturale avvenivano attraverso il teatro e la musica, arti praticabili anche dagli analfabeti, che sono stati fino agli anni sessanta del ‘900 la stragrande parte della popolazione. Ho conosciuto abbastanza questa storia nei miei anni napoletani, ma vi ero preparato dall’assiduo ascolto radiofonico nel dopoguerra, apprezzando già allora un aspetto singolare di quella storia: l’adesione al presente, con canzoni che seguivano e raccontavano l’evoluzione della società. Commosse allora tutti Monastero ‘e Santa Chiara sulla Napoli tragica e miserabile del dopoguerra, divertì tutti lo scherzetto sull’avvento del voto alle donne di E’ arrivata al Parlamento, Concettina Caporì, fecero sognare gli idilli sentimentali di Roberto Murolo e divertirono tutti le canzonette e scherzi di Renato Carosone. Scoprii a Napoli anche la canzone femminile, con le voci storiche di Gilda Mignonette ed Elvira Donnarumma ed Eva Nova, e con quelle contemporanee di Maria Paris, di Angela Luce, di Giulietta Sacco, così diverse tra loro. Ma una voce soprattutto affascinava, quella di Sergio Bruni (1921–2003) di cui diventai amico e confidente grazie a un articolo in cui lo paragonavo a Frank Sinatra, dicendo una cosa che pochi dicevano: che Bruni era più originale e più bravo, ma col difetto di non essere americano. Per di più Bruni era anche molto attivo socialmente e politicamente, aveva preso parte alle 4 giornate dell’insurrezione cittadina del ‘43 restando ferito e zoppicante per tutta la vita, e negli anni ‘70 accompagnò la campagna elettorale di Bassolino con grandi concerti di piazza, cantando canzoni di cui era autore di versi e note (come la stupenda ’Na bruna) o che aveva scritto musicando un vero poeta come Salvatore Palomba (Carmela la più celebre, ma anche canzoni fortemente politiche sulla condizione sociale dei più deprivati, e dell’infanzia). Il cofanetto in cui Bruni (con l’aiuto di Roberto De Simone) ripercorre la storia della canzone napoletana dalle origini agli anni ‘70 è a mio parere uno dei “classici” della storia napoletana e di quella della nostra creatività popolare: un vecchio maestro dalla voce oggi un po’ opaca, ma geniale quanto i vecchi maestri di altre arti e altri paesi, rari ed eccelsi.